Un brusco risveglio per il settore petrolifero


Può questa industria sopravvivere allo shock del cambiamento climatico?

 

C’è un parco a tema nella citta de L’Aia, famoso in tutto il mondo, che celebra la storia dell’Olanda attraverso una serie di modelli in miniatura. Il Madurodam Park, questo è il suo nome, è un susseguirsi di piccoli canali, antichi mulini a vento, tulipani: i Paesi Bassi in miniatura, insomma. E in mezzo a tutto questo, fanno bella mostra di sé una piattaforma petrolifera, una di estrazione del gas e, naturalmente, un distributore di benzina. Tutti della Shell. Il colpo d’occhio è nello stesso tempo strano (che ci fanno delle infrastrutture energetiche in un parco tematico dedicato ai più piccoli?) ma anche perfettamente calzante con la storia di quel Paese. Lo RoyalDutch Shell è stata infatti, per decenni, uno degli attori più importanti dei Paesi Bassi: decisiva per la politica nazionale e determinante anche a livello globale, essendo la seconda compagnia petrolifera pubblica del mondo. Ma ora le cose potrebbero cambiare. Forse non nel Parco di Madurodam, che rimarrà com’è, ma nel settore petrolifero a livello mondiale, a causa della sfida portata dal cambiamento climatico.

Come possono infatti queste aziende che generano la gran parte dei loro profitti saziando l’appetito di petrolio del mondo, fronteggiare un futuro che rischia di rendere obsoleti i combustibili fossili? La pressione pubblica e privata per un cambiamento radicale è già in atto, persino nella culla della Shell: oltre 17mila cittadini olandesi hanno fatto causa alla compagnia petrolifera nazionale; numerosi e potenti investitori istituzionali stanno forzando il board a intraprendere azioni concrete per ridurre le emissioni dannose per l’ambiente. E la risposta dei mercati, al di là della pura speculazione sui prezzi sempre presente sulle materie prime, non si è fatta attendere. Infatti, quello dell’energia è il settore che ha registrato le peggiori performance nel 2019 secondo l’indice azionario Standard &Poor’s 500. Mentre 40 anni fa i titoli energetici rappresentavano circa il 28% dell’indice, lo scorso anno si sono ridotti ad appena il 5% e Moody’s ha lanciato l’allarme sui rischi della transizione energetica, sia a livello di calo di attività che di aumento di rischio per gli investitori.

D’altronde lo stesso Larry Fink, fondatore e CEO di BlackRock, non ha esitato a scrivere una lettera aperta che richiama esplicitamente il fatto che il tema del cambiamento climatico è diventato un fattore determinante nel medio-lungo periodo, per tutte le imprese. Un appello che non è andato inascoltato e che proprio la Shell ha recentemente fatto proprio decidendo, dopo 112 anni di attività, di diversificare il suo business dallo sfruttamento dei combustibili fossili alla produzione di energia elettrica. E, come molte altre compagnie petrolifere di ogni parte del mondo, pretende di presentarsi oggi come un alfiere dell’ambiente, comunicando il suo intendimento di ridurre le emissioni del 50% nel 2050, anche se molte associazioni ambientaliste non sembrano particolarmente convinte né dei tempi né dei modi in cui verrà attuato questo processo. Certamente però la scelta di ridurre il ricorso al petrolio non è caduta dal cielo e non è nemmeno un semplice atto di benevolenza, ma è piuttosto una reazione al vento del cambiamento che soffia forte sui mercati mondiali.

La decisione della Shell, comunque la si voglia giudicare, non è casuale e dimostra che anni di pressioni politiche ed economiche sviluppate da governi ed investitori per rispondere alla crescente domanda dei cittadini, cominciano a dare risultati concreti e possono spingere anche i giganti economici a cambiare il loro atteggiamento e le loro politiche industriali. ClimateAction 100+, un potente gruppo di investitori internazionali che rappresentano oggi oltre 41 miliardi di dollari di asset investiti, ha rilasciato una dichiarazione che è in pratica un ultimatum: o Shell si impegna a ridurre nel breve termine le emissioni nocive per l’ambiente o rischia di perdere il supporto di alcuni tra i suoi più importanti investitori, asset manager e fondi pensione. Anne Simpson, Direttrice Global Governance and Investment del Fondo Pensione americano CalPERS (600mila iscritti e 300 miliardi di dollari di patrimonio), ha recentemente dichiarato alla rivista TIME: “I politici possono anche essere confusi e incerti sul tema del cambiamento climatico ma i soldi parlano chiaro”.

Già, “moneytalks”, come dice la signora Simpson.

 


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