Nibali, l’ultima icona del ciclismo italiano


Il campionissimo siciliano è uno dei sette ciclisti al mondo ad aver conquistato almeno un’edizione dei tre Grandi Giri: la Vuelta nel 2010, due volte la Corsa Rosa nel 2013 e nel 2016 e l’apice nel 2014 con il trionfo al Tour de France.

Vincenzo Nibali è il ciclista italiano più vincente del secondo decennio degli anni 2000: in 17 stagioni da professionista sono 52 le corse vinte, tra cui due Giri d’Italia, un Tour de France e una Vuelta di Spagna. Uno dei suoi traguardi più importanti è quello di aver vinto in carriera almeno una volta tutti questi tre Grandi Giri. In gergo ciclistico si chiama Tripla Corona, una cosa che non riesce tutti i giorni. Basti pensare che l’hanno fatto solo in sette nella storia del ciclismo mondiale. Questo ci fa capire quale sia stato il peso di Nibali e quanto un professionista come lui manchi oggi al ciclismo italiano. Nibali è stato soprannominato da tutti lo “Squalo dello Stretto”. Chiaro il riferimento allo Stretto di Messina, da cui proviene. Ma a voler essere ancor più lampante in questo soprannome è la sua indole da puro attaccante, che non si risparmia mai. Centrando traguardi sotto la neve, sul pavé, dopo discese a picco sul lago o lungo strade affacciate sul mare, ha scritto molte pagine di storia di questo sport, a modo suo, a metà strada tra l’emozione epica delle imprese d’altri tempi e la tattica moderna ed estrema, che mira e sfiora la perfezione. Il Tour de France, che quest’anno partirà per la prima volta dall’Italia, è il suo capolavoro. Sedici anni dopo Marco Pantani, un altro italiano ha conquistato la Grand Boucle. Nibali ha dominato la corsa dall’inizio alla fine, restando in maglia gialla per ben 19 tappe. È stato un anno magico per lui: qualche mese prima dell’exploit al Tour era diventato papà per la prima volta della piccola Emma Vittoria, la sua più grande tifosa insieme ai genitori e alla moglie Rachele, che da qualche mese ha dato alla luce la loro secondogenita, Miriam Venere. Nel suo palmarès si contano anche due Giri di Lombardia, due titoli italiani nella prova in linea, due Tirreno-Adriatico e sette podi complessivi nei tre Grandi Giri. Nel 2018 un’altra, immensa soddisfazione: la vittoria della Milano-Sanremo, grazie all’attacco sulla salita del Poggio a soli 7 chilometri dal traguardo. L’ultimo grande successo di una carriera da leggenda del ciclismo. Dopo tutto questo, al termine del Giro di Lombardia 2022, a 37 anni, è arrivato l’annuncio di appendere la bici al chiodo. Da quella decisione è trascorso un anno. 

Alla fine di un’avventura così incredibile, da ex corridore giunto ai massimi livelli, come si può vivere il ciclismo?
Da fuori osservo tutto quello che prima non riuscivo ad apprezzare. Da corridore non puoi essere lucido mentre ora analizzo aspetti che prima, da atleta, non ero in grado di fotografare e riesco ad avere un quadro più generale di quello che è oggi il mondo del ciclismo.

Ti piacerebbe correre nel ciclismo di oggi?
Con qualche anno in meno sì! (sorride). Oggi il ciclismo è più istintivo ma per raggiungere dei risultati serve anche la ragione. Ogni vittoria va costruita e a volte non basta buttare il cuore oltre l’ostacolo.

Quando ci sarà un altro Nibali?
È una domanda difficile, non lo so ma tutti speriamo ci sia presto. Ci sono molti giovani promettenti a cui auguro di trovare maggiore continuità. E poi abbiamo Filippo Ganna che è nel pieno della maturazione e potrebbe provare a vincere anche le grandi classiche su strada.

Tra i non italiani chi può fare bene?
Pogacar è pronto a sfidare Mathieu Van der Poel, può vincere ancora molto e provare la doppietta Giro-Tour. Ma anche Geraint Thomas, che ha sfiorato il successo all’ultimo Giro.

Come si gestiscono le aspettative, personali e degli altri?
Nel mio caso quelle degli altri sono sempre state più alte delle mie e questo mi procurava tensione che contenevo cercando di isolarmi e costruendo barriere intorno a me e al mio gruppo di lavoro. Le persone che hanno lavorato al mio fianco sono state fondamentali nel filtrare l’esterno e così proteggermi.

Cresciuto a granite e bicicletta, da “Pulce dei Pirenei” sei diventato per tutti lo “squalo” quando hai vinto il Tour, 16 anni dopo Marco Pantani e 49 dopo Felice Gimondi. Che ricordo hai di quel momento?
Un’emozione unica. I miei occhi erano colmi di gioia.

Nel 2016 il secondo trionfo in rosa grazie all’impresa sul Colle dell’Agnello e alla stoccata vincente in cui strappasti la maglia a Chaves, anche grazie al prezioso aiuto di Michele Scarponi (suo compagno di squadra scomparso in un incidente stradale a soli 37 anni, ndr).

È stata la vittoria più bella, non ci credevo nemmeno io. Che dire… il ciclismo è anche questo, sapersi mettere da parte quando non si è al meglio e favorire chi è più in condizione di te. Amicizia pura. Michele era la nostra forza per tanti aspetti, un compagno vero.

Cosa stai facendo oggi?
Da subito, dopo essere sceso dalla bici, ho sposato il progetto Q36.5 Pro Cycling Team, squadra professionale italo-svizzera, diventando Ambassador e consulente tecnico del marchio di abbigliamento, un incarico che mi permette di trasmettere a una nuova generazione di corridori tutto quello che ho appreso nei miei anni da professionista. E poi mi diverte anche il ruolo di presentatore che ho accettato di ricoprire nel prossimo Giro.

Qualcuno ti vedrebbe bene anche come ct della Nazionale. Cosa ne pensi?
È un ruolo importantissimo e al momento, se mi fosse chiesto, risponderei di no. In un futuro, fra cinque o sei anni, forse lo valuterei. L’attuale ct sta lavorando molto bene nella creazione di un gruppo e credo sia nella direzione giusta per ottenere i primi risultati.

Speriamo, anche in ottica olimpica, con Parigi alle porte. Intanto le tue sembrano parole da vero coach. Stai studiando?
Sì, sto seguendo un percorso formativo per diventare direttore tecnico anche se non mi vedrei in quei panni. Il mio obiettivo è capire come lavora la struttura che prepara i corridori. Sto frequentando anche i primi livelli di preparazione a cui normalmente sono esentati i professionisti proprio perché mi interessa partire dalla base. Incontro tanti genitori di giovanissimi che prendono il titolo per seguire i propri figli o far correre al meglio i ragazzi della loro zona. Mi diverte sentire, ad esempio, come è bene descrivere il modo di affrontare la paura nelle discese. A certe velocità ci si abitua alla paura, la bravura vera si vede nel modo di affrontare le curve. Avere il controllo della bici in discesa è infatti una delle prime tecniche che si insegna ai bambini.

Saranno sorpresi di vedere un campionissimo seduto sui banchi insieme a loro…
Un po’ sì, (ride, ndr). Qualcuno mi ha anche chiesto se sono davvero io!

Parole di un campione umile, come lo è stato per tutta la carriera.