Nel primo giallo dello scrittore torinese, un viaggio nella contemporaneità tra parole e musica, con la Puglia ancora una volta sullo sfondo.
“Scrivere è la cosa che mi riesce meglio insieme ai primi piatti con quel che resta in frigo”. A raccontarsi così è Luca Bianchini.
Una carriera iniziata nel 2003 con il romanzo “Instant love”, scritto dopo aver letto la sceneggiatura di “Santa Maradona” dell’amico Marco Ponti, conosciuto all’Università. Prima di allora la laurea in Retorica e Stilistica con lode e dignità di stampa, un primo lavoro da redattore filatelico in Bolaffi e dieci anni di esperienza professionale in agenzie pubblicitarie. “Un lavoro che mi ha insegnato a essere veloce, creativo e a incassare i no”.
Qualche anno dopo scrive la biografia di Ramazzotti, “Eros – Lo giuro”, un’esperienza che gli ha permesso di seguire la pop star in giro per il mondo. Dopo dieci anni e quattro romanzi, esce “Io che amo solo te” ed è un successo inarrestabile. I due peperoncini della copertina, insieme al matrimonio pugliese dell’anno conquistano migliaia di lettori. La sua popolarità aumenta con l’esperienza radiofonica, prima come ospite a “Viva Radio2” da Fiorello, poi come conduttore del programma all’alba “Colazione da Tiffany”, il secondo più ascoltato della rete dopo “Il Ruggito del Coniglio”.
In quel periodo esce il film tratto da “Io che amo solo te” diretto da Marco Ponti con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti e Michele Placido. L’anno dopo è in sala “La cena di Natale” con lo stesso cast. Anche un terzo film, con Alessandro Preziosi e Sarah Felberbaum, è tratto da un suo libro. Nel 2020 esce l’ultimo romanzo, “Baci da Polignano”, che continua la storia di Ninella e don Mimì di “Io che amo solo te”. Pochi giorni prima dello scoppio della pandemia Luca spegne 50 candeline ed è in quel momento che nasce “Le mogli hanno sempre ragione”, presentato ora con un tour di eventi live.
Un’emozione ritornare ad incontrare dal vivo i propri lettori.
Il dramma del lockdown ognuno lo ha vissuto in modo diverso e non necessariamente tutti abbiamo imparato qualcosa. Nel mio piccolo mi sono detto che in un periodo così potevo dare del mio meglio in quello che sapevo fare e quindi ho cercato di scrivere e di fare tante interviste in diretta streaming. Mi sono inventato le 50 domande secche e ho intervistato tanti personaggi, a partire da Emma Marrone, Jovanotti, Federica Pellegrini e Gianni Morandi.
Ed è in quel periodo che hai deciso di scrivere il tuo primo giallo.
Ero come tutti chiuso in casa. In genere viaggio molto, chi mi legge lo sa, nei miei racconti esistono molti mondi: la Puglia, Londra, Trieste. I viaggi sono stati un pretesto per incontrare persone e far nascere storie. Per me la scrittura è un po’ un viaggio. Con la pandemia non si poteva viaggiare e così ho deciso di scrivere qualcosa di diverso. Essendo molto diretto e non sempre corretto, ammetto che non volevo raccontare del solito commissario affascinante intorno al quale far ruotare più vicende sempre uguali.
Il mio giallo – ho pensato – sarà diverso. Sono un pettegolo, come molti sanno, e per questo ero dubbioso sullo scrivere un giallo, perché dopo poche righe avrei già voluto svelare l’assassino.
Ogni giallo presuppone infatti un segreto che andrà svelato alla fine.
Esatto, non come quelli che ti dicono un segreto raccomandandoti di non riferirlo a nessuno. Impossibile. Il vero segreto non ha bisogno di questa esternazione. L’unico modo per dire un segreto è essere sicuri che non venga detto e aggiungere la frase: “Guarda che lo sai solo tu…”.
Allora come si scrive un giallo?
Io non lo sapevo, sono andato su Google e ho scritto: come si scrive un giallo. Così ho scoperto che ci sono delle regole precise: un saggio di cinque pagine le spiega benissimo e come me tutti possono scrivere un giallo. Le regole sono semplici: innanzitutto prima di iniziare a scrivere bisogna conoscere chi è la vittima, chi è il colpevole e qual è il movente.
Sarebbe sbagliato iniziare a scrivere pensando di decidere chi far morire in un secondo momento. Lo devi sapere subito.
Come hai deciso chi sarebbe stata la tua vittima?
Ero al telefono con la persona a cui mi sono ispirato per la protagonista di “So che un giorno tornerai” (altro suo romanzo, n.d.r.) e entrambi ci chiedevamo chi potesse essere la vittima. Insieme abbiamo concordato di far morire chi nella storia conoscevamo meno, la tata arrivata da poco al paese. La morte non è avvenuta in modo cruento, tanto che l’arma del delitto è un angioletto Thun, svelata dopo sole tre pagine.
Il protagonista è naturalmente il maresciallo che conduce le indagini.
Sì, ma il mio è un uomo con passioni singolari rispetto al suo ruolo, ama la musica e il karaoke. Solo un tamarro come me poteva avere una tale idea! Ma è per questo che il libro è pieno di canzoni. Il maresciallo ha poi un solo desiderio: la pensione.
Come nasce il titolo “Le mogli hanno sempre ragione”?
Non è facile trovare un titolo accattivante. Finora ho scritto tanti libri dove il titolo mi è venuto quasi subito. Da dopo “Io che amo solo te” ho avuto più difficoltà, quel titolo mi ha dato un po’ di ansia da prestazione.
Parlando con la mia editor è venuta fuori questa frase già scritta nel libro e che crea sempre una discussione.
Non sono le donne che hanno sempre ragione, che mi sarebbe sembrata una ruffianata per le quote rosa, ma le mogli ed è diverso: si racconta il mondo del matrimonio, spesso in difficoltà come una specie in estinzione. Nel matrimonio la moglie ha sempre ragione, anche quando non ce l’ha, e gliela devi dare per il quieto vivere.
A convincermi è stata la reazione avuta dal tipografo al titolo alla prima stampa. Quando due persone che non si conoscono conversano su un tema che non sia un classico lamentarsi per qualcosa, allora vuol dire che il tema apre al dibattito.
Questo è un titolo che mette d’accordo le mogli, perché ci credono, e rassicura i mariti, sollevati nel leggere una frase che tranquillizza le mogli.
La moglie nel giallo è la compagna del maresciallo. Che personaggio è?
Premesso che amo molto i personaggi secondari: i non protagonisti ti spingono a dare il meglio di te proprio perché occupano un tempo limitato nel racconto. Felicetta già nel nome dice molto: lei è come quelle mogli pugliesi che convincono il marito a cambiare un elettrodomestico sussurrandogli la cosa mentre stanno per addormentarsi.
C’è una persona che ringrazi nel libro perché determinante nella stesura di questa storia, un vero carabiniere.
Si chiama Paolo, siamo amici dal 2003 da quando era in Iraq. Quando ho pensato di scrivere di un delitto ho pensato che avrei potuto chiedere a lui che la materia la conosce bene.
Non sapevo da che parte iniziare con indizi, impronte digitali e altro. Con lui e la mia editor ci incontravamo in piena pandemia nella mia cucina, dove lavoro da sempre. Ha risolto molte questioni dandoci suggerimenti molto utili, come quello di lasciare un capello sulla giacca.
Il libro ha anche una dedica speciale.
Il titolo poteva far dispiacere a mio padre e così ho pensato che il libro potevo dedicarlo a lui che in questi anni ha avuto un po’ di problemi. Preferisco le dediche fatte a persone viventi e non a chi ci ha lasciato. Mi piace ringraziare le persone quando queste sono ancora qui per sentire il nostro grazie.