Siamo tutti Onlife: benvenuti nel ventunesimo secolo. Intervista al Professor Luciano Floridi


Onlife è un concetto che Lei ha ideato qualche anno fa, presentato nei suoi libri e oggi usato da media e personalità. A suo tempo aveva registrato il termine?
Qual è il significato?

Luciano Floridi, filosofo, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford, dove è direttore del Digital Ethics Lab

Purtroppo non l’ho registrato, visto che oggi è usato moltissimo. Fa parte del lavoro della “Ricerca” coniare ogni tanto un termine utile. Onlife sintetizza in una parola sola un ventaglio di esperienze che richiederebbero lunghe frasi per la loro descrizione. Non siamo più divisi tra il digitale e l’analogico, tra online e offline, ormai la nostra vita è immersa nella confluenza tra queste realtà. L’analogia che ho usato per descrivere il termine è quello del punto in cui l’acqua dolce incontra l’acqua salata. Ho descritto la nostra come la società delle mangrovie, che crescono nell’acqua salmastra, il punto in cui avviene questa confluenza di flussi d’acqua. Faccio un esempio: sono in cucina, sto parlando con Alexa, nel frattempo ascolto musica da un vecchio tablet collegato col Bluetooth ad un piccolo speaker, leggo la ricetta sull’iPhone, entra qualcuno e mi dice, sei Online o sei Offline? Sono Onlife, ovviamente! In questo nuovo mondo c’era ancora chi non viveva nella “società delle mangrovie” cioè chi era completamente fuori dall’acqua salmastra. Con l’emergenza Covid ci siamo accorti cosa significhi restare fuori perché chi lo era, è stato penalizzato in modo particolare. Pensiamo anche al settore delle Banche in cui le distanze tra realtà che hanno investito molto nel digitale e quelle rimaste indietro si stanno ulteriormente allargando.

Nei suoi libri si parla di “InfoSfera”. Che ruolo ha avuto l’Infodemia in un mondo in cui l’informazione non è più filtrata e qualsiasi notizia finisce sui social a prescindere dal fatto che sia vera o falsa? Che impatto ha avuto tale fenomeno nella gestione mediatica del Covid in questi mesi?

Il problema dell’informazione adulterata sta diventando sempre più evidente. Faccio nuovamente alcuni esempi. Molti anni fa si era verificato lo scandalo delle “polverine” con cui veniva fatto il vino. Nel settore alimentare, nei paesi come l’Italia, oggi diamo per scontato che in un supermercato o in un mercato rionale non si trovi qualsiasi cibo senza controllo. È inconcepibile oggi che chiunque possa mettere su un banco cibo scaduto, adulterato o addirittura avvelenato. Oggi per l’informazione invece sta avvenendo proprio questo. Sull’argomento sono decenni che mi esprimo come il “grillo parlante”. Il primo mio paper sull’Infodemia è dei primi anni ‘90. Se lo si legge oggi, cascano le braccia perché descrivo esattamente ciò che sta avvenendo. E allora non c’era ancora Internet, c’erano solo i primi gruppi di discussione online, ma bastava saper ragionare. Che cosa si può fare? Come avvenuto per il settore alimentare, quello farmaceutico o dell’energia, si deve agire per il settore dell’informazione. Vi sono alcuni contenuti illegali o falsi che devono essere immediatamente intercettati ed eliminati. I nostri valori sono tolleranti, ma esiste un livello al di sotto del quale non si deve scendere. Mi chiedo come sia possibile che se metto su YouTube una canzone protetta da copyright mi viene cancellata in pochi minuti in modo proattivo e se invece si inserisce un video o un’immagine neonazista questa possa rimanere per giorni senza che nessuno intervenga. La comunicazione deve essere civile. Penso invece ad esempio al modo di comunicare di Trump negli USA. A me dispiace che Zuckerberg si sia posto dalla parte della “libertà di espressione a tutti i costi”. È una forma di liberalismo da “Far West” che oggi non trova più spazio, è anacronistico. Le piattaforme social non sono tanto “comunicazione” sono soprattutto “ambienti”: Zuckerberg ha detto “noi dovremmo essere trattati a metà strada tra i giornali e la telefonia”. Io da filosofo rispondo che non è così. Dovremmo trattare Facebook come un misto di piazza e parco pubblico. Siamo in una società e bisogna avere rispetto per tutti, la violenza online, le fake news non possono più trovare spazio in un ambiente comune. Twitter si sta invece muovendo nella direzione giusta. Penso che l’Europa debba presto attuare un intervento importante su questi argomenti. È questione di tempo, ma più si attende nel risolvere la questione e più danni si vedranno.

Qual è Il ruolo dell’etica nell’applicazione dell’Intelligenza Artificiale? Penso al dilemma dell’automobile con autopilota all’incrocio stradale, che in caso di incidente deve decidere chi salvare tra la vecchietta e il bimbo nella carrozzina. A che punto siamo in questo campo?

Abbiamo fatto qualche passo avanti nel capire ciò che non si potrà mai fare. In passato sentivo parlare molto della possibilità di implementare regole etiche direttamente nel codice del software dell’Intelligenza Artificiale. È fantascienza, perché noi non abbiamo capito ancora come “funzionano” gli esseri umani e pretendiamo di insegnare il comportamento umano alle macchine. L’etica “by design”, l’umanizzazione dell’Intelligenza
Artificiale, oggi ha veramente poca presa, rimarrà sempre nei sogni di tutti noi. Quello che invece si sta sviluppando molto è lo studio sulla responsabilizzazione dell’A.I. Mi spiego meglio: sarà sempre più importante capire chi paga i costi degli errori compiuti dall’Intelligenza Artificiale. Pensiamo ad una diagnosi medica errata rilasciata da un software, ad un mutuo erratamente concesso da un Robot finanziario, a un decesso causato da un’auto a guida autonoma. Capire dove e come si distribuisca questa responsabilità, e quali siano le entità che alla fine pagano per un danno, questa è la strada che il mio gruppo di lavoro qui a Oxford sta percorrendo. È l’Auditing dell’Intelligenza Artificiale: presto usciremo con una pubblicazione su questo argomento. A suo tempo, come coordinatore di un gruppo di Ricerca della Commissione Europea, avevo già avanzato questa proposta, ma credo non sia mai stata presa in considerazione. Oggi invece le grandi Corporation sono molto interessate a questo argomento.

I nostri lettori appartengono al settore finanza. Come rimodellerà l’A.I. il lavoro in questo settore a suo avviso? Quale etica dovranno avere i Robot Finanziari?
Anche in questo settore con i miei colleghi stiamo lavorando su un argomento veramente di frontiera: l’etica delle applicazioni Fintech. Per ora non siamo allo stadio di pubblicazione ma l’argomento è affascinante. In questo ambito è importante capire se l’A.I. è usata come strumento o meta-strumento. Se usato come strumento purtroppo avremo sempre il rischio dei rapidi crolli di borsa che si erano verificati in passato. L’esempio classico è la capacità dei robot finanziari nell’agire in modo rapidissimo a cambiamenti di prezzi in borsa, che possono portare ad aumenti di volumi di contrattazione e ampia oscillazione dei relativi valori con la conseguente esplosione di bolle finanziarie. Se invece l’A.I. viene usata come meta-strumento diventa un ottimo supporto proprio nell’evitare il crollo dei mercati. Infatti, se si usa l’Intelligenza Artificiale per capire in anticipo che si stanno formando bolle finanziare e impedire che questo avvenga o limitandone l’impatto violento (funzionando in questo caso come un air-bag), ci troviamo di fronte ad una soluzione molto utile anche dal punto di vista sociale. Un terzo aspetto è l’uso dell’A.I. per fare emergere fenomeni che altrimenti non potrebbero esistere. Facciamo l’esempio della microfinanza e dei microprestiti. In questo caso valutare in tempi rapidissimi, con costi estremamente bassi la possibilità di erogare un prestito ad esempio da 50 € e farlo per centinaia di migliaia se non milioni di persone, diventa anche uno strumento sociale che in certe nazioni come l’India ha creato nuovi business che prima non potevano esistere. Le grandi banche usano oggi tutti e tre i sistemi di cui ho parlato.

Parliamo delle famose App per il tracciamento anti Covid. Le App stanno funzionando? Perché in pochi le scaricano?
È un fenomeno generale questo, non sta avvenendo solo in Italia. Sintetizzo in tre parole: mancanza di fiducia. È vero che noi spesso scarichiamo App di tutti i tipi fornendo a terzi i nostri dati in modo più o meno consapevole. Ma in questo caso è perché non percepiamo il rischio di un eventuale danno che l’App possa arrecarci. Diverso è invece quando l’utente vede dell’altra parte un’istituzione che a suo avviso possa esercitare veramente un controllo su di lui o arrecargli un danno. Lo Stato, una grande banca, il sistema sanitario, un partito politico, un’organizzazione per la sicurezza nazionale come ad esempio negli USA, sono tutte entità che si pongono in una sorta di asimmetria di potere nei confronti dell’utente. Da Singapore all’Australia, fino ad arrivare in Europa in UK e Italia, le persone non stanno scaricando l’App di tracciamento. Quando dico “nessuno” intendo, che avere solo il 10% della popolazione che installa l’App non serve. Faccio sempre l’esempio dell’automobile che non parte. Se una sola persona spinge non serve, se siamo in due non basta, ma se siamo in sei l’auto parte. Ecco, in questo caso purtroppo si crea addirittura l’effetto opposto, perfino i pochi che hanno scaricato l’App dicono che non serve. In Gran Bretagna è successo questo. Bisogna invertire questo circolo vizioso che nasce dalla mancanza di fiducia.

In Cina è stato introdotto da alcuni anni il “rating sociale” basato su sofisticati algoritmi di valutazione e controllo dei comportamenti del singolo. Qual è il ruolo dell’etica in tutto ciò? Esistono dei valori fondamentali del buon cittadino che rendono applicabile questo modello anche al mondo occidentale?
No, questo sistema non può funzionare e non funzionerà nel mondo libero. Partiamo da valori talmente diversi, addirittura opposti rispetto alla Cina e l’applicazione di tali logiche porterebbe alla rivoluzione. Due sono gli elementi fondamentali che ci distinguono. Nei paesi occidentali lo Stato è visto come un’organizzazione che prima di tutto protegge l’individuo e poi la società. In secondo luogo, le persone sono libere, possono anche sbagliare all’interno di determinati limiti, ma esiste sempre la presunzione di innocenza. Lo Stato non mi deve controllare, perché si presume che l’individuo operi correttamente. L’istituzione inizia a controllare il cittadino solo quando esiste il fondato sospetto che il cittadino abbia compiuto un reato. In Cina sembra essere esattamente l’opposto, lo Stato controlla il cittadino in modo preventivo. Quello che abbiamo capito molto bene (questo lo hanno capito anche i cinesi) è che il controllo globale dello Stato modifica i comportamenti dei singoli alterando non solo quello delle persone disoneste ma in modo negativo anche quello degli onesti. È come quando in autostrada con limite dei 130 km all’ora si ha di fianco per tutto il tempo del viaggio una volante della polizia: è provato che tutti vanno a velocità ben più basse del limite consentito, rallentando in modo impressionante il traffico. Noi siamo convinti di essere dalla parte del giusto. La tolleranza consiste nel fatto che speriamo che un giorno il modello cinese possa
cambiare ammettendo l’errore. I cittadini cinesi che provano cosa significhi essere liberi, viaggiando ad esempio negli USA o in Europa non vogliono “più tornare indietro” nel senso che si rendono conto della grande differenza tra i due modelli.

Il virus sta introducendo grandi rivoluzioni sociali. La Cina ha agito bene ma in regime autoritario, l’America sta agendo malissimo in un regime democratico. L’Europa è nel mezzo. Quale modello prevarrà e cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni in termini di evoluzione delle democrazie?
Questo episodio va visto come parte di una traiettoria dei singoli modelli. Noi in Europa, prima in Italia e ultima la Gran Bretagna abbiamo attuato azioni chiaramente antidemocratiche. Sono azioni accettabili in una democrazia, perché avvenute quale reazione di un “corpo sociale sano” ad un evento unico, speriamo irripetibile. Finita l’emergenza in un paese democratico si torna alla normalità, la sospensione di certi diritti termina. In America le conseguenze della scelta di non attuare le misure necessarie è sotto gli occhi di tutti. In Cina il problema si è risolto in modo più rapido ma è stata un’occasione per rafforzare ulteriormente il controllo sui cittadini per il futuro. Sono convinto che il modello vincente sia quello europeo, da questo punto di vista abbiamo molto da insegnare a tutto il mondo.

La vita futura post Covid. È vero che con il Coronavirus termina definitivamente l’era “analogica” come annunciato sul Financial Times qualche settimana fa?
Direi che possiamo vedere il virus come la spallata che sfonda una porta che era aperta già da tempo. Sono almeno trent’anni che la rivoluzione digitale è in atto, Internet ha compiuto cinquant’anni da poco. Semplicemente mancava all’appello ancora la signora Maria o il signor Giuseppe: intendo dire che fino a qualche mese fa c’era un’intera fascia della popolazione che non era ancora consapevole della pervasività del digitale. Possiamo dire che è la fine dell’era analogica per la “cultura popolare”, non intendo la cultura da bar, ma quella di massa. Parlo della vita quotidiana, le cose che facciamo tutti i giorni, la ricetta del medico, il lavoro, la scuola. Ho detto in altre interviste “ci abbiamo messo vent’anni per entrare nel ventunesimo secolo, ma poi ci siamo entrati in pochi mesi”.