“C’è ancora domani” è il titolo del suo debutto alla regia, ma è anche una frase di speranza per tante donne che vivono in un mondo di discriminazione. Lontano dall’essere un proclama femminista, il film è un affresco delicato che sa far sorridere e pensare. Pathos, gentilezza, humor. Potrebbero essere queste le parole chiave per descrivere “C’è ancora domani”, l’opera prima alla regia di Paola Cortellesi scritta con Giulia Calenda e Furio Andreotti. Il film, accolto con entusiasmo dal pubblico e dalla critica, ha aperto il 18° Festival del Cinema di Roma dello scorso ottobre e le è valso il Premio speciale della giuria. Un successo che arriva dopo una brillante carriera televisiva, teatrale e cinematografica. Una carriera fatta anche di sceneggiature come “Gli ultimi saranno ultimi” diretto da Massimiliano Bruno e “Ma cosa ci dice il cervello” di Riccardo Milani. Una carriera inarrestabile, come dimostra questo poetico lungometraggio che la Cortellesi firma anche dietro la macchina da presa.
Come definiresti “C’è ancora domani”?
Un film contemporaneo ambientato negli anni ’40, in un periodo in cui non si denunciava la violenza domestica e dove le donne non avevano coscienza di sé e credevano di non valere perché erano state educate così. Delia, la protagonista, non è sciocca, ma è inconsapevole e solo grazie alla figlia trova il coraggio di agire. I detrattori definiscono la pellicola femminista, ma non lo è. Nelle mie intenzioni volevo ricordare un fatto di cronaca importante per la storia italiana. Lo reputo un lungometraggio leggero e delicato, non arrabbiato e di denuncia.
A chi ti sei ispirata per la trama?
Ho ascoltato le storie delle nonne e delle bisnonne che un tempo si riunivano nei cortili. Per loro la normalità era lavorare, non avere un’istruzione e talvolta essere picchiate dal marito senza denunciarlo. Erano donne inconsapevoli, ma anche forti e capaci di accettare una quotidianità fatta di sacrifici. Mi sono basata sul vissuto di persone non famose, ma che hanno fatto la storia del nostro paese.
In questa pellicola hai il doppio ruolo di regista e attrice. È stato complicato?
Quando sei dietro alla telecamera non puoi pensare anche alla recitazione. Per realizzare il film ci sono volute nove settimane di riprese delle quali tre sono state di prove con gli attori. Avevo bisogno di tempo per far capire loro cosa volevo, ma anche per sapere come ognuno immaginava il proprio personaggio. Per la scena finale, quella con maggiore pathos, non ho detto nulla a nessuno. Ho dato il copione senza quella parte perché volevo avere l’effetto sorpresa… e ci sono riuscita!
Ti sei anche divertita?
Molto! Nel mio mestiere il divertimento è importante perché significa partecipare in maniera attiva e consapevole alla pellicola. Il cast poi era fantastico. Ho avuto la possibilità di lavorare con colleghi che sono anche amici nella vita e con i quali ho condiviso con entusiasmo i risultati di ogni scena. Non parlo solo degli attori, ma di tutti i reparti. Il vantaggio di debuttare come regista dopo una carriera da attrice è che conosco i professionisti del settore per cui ho scelto chi mi corrispondeva. Da 10 anni infatti scrivo le sceneggiature di gran parte dei film che ho interpretato. Sul set c’erano gentilezza e allegria. Mi sono e ci siamo divertiti.
Perché hai scelto di girare in bianco e nero?
Il film è ambientato nel dopoguerra e la cinematografia dell’epoca, quella del neorealismo, non era a colori. Il direttore della fotografia, Davide Leone, ha fatto un grandissimo lavoro in tal senso. Tutti hanno collaborato con grande professionalità: la scenografia si è interfacciata con chi si occupava dei costumi per far sì che nelle riprese in bianco e nero non ci fosse sovrapposizione e confusione tra l’abbigliamento e lo sfondo. Tutti hanno dato fiducia alla storia e sposato questo progetto ed è grazie a loro che oggi sono in sala.
Le musiche, selezionate con grande cura, dettano il ritmo della storia. Come le hai scelte?
Le melodie sono una parte fondamentale della scrittura perché accompagnano e sottolineano la narrazione. Pensa, ad esempio, a una delle prime scene di violenza domestica che è raccontata proprio dalla musica. Lele Marchitelli è l’autore delle composizioni originali, ma oltre alle sue ce ne sono di già famose che lui, con molta umiltà, ha accettato. Ci sono brani di Fiorella Bini e Achille Togliani, ma anche di Lucio Dalla, Nada, Daniele Silvestri, Fabio Concato e ancora innesti internazionali di hip hop, elettronica e rock alternativo.
Roma è una protagonista della storia. È stato complicato trasformare la città di oggi in quella del 1946?
A fare da sfondo alla trama c’è Testaccio, un rione all’epoca molto popolare nel senso che era abitato da persone umili che facevano fatica ad arrivare a fine mese. La scenografa Paola Comencini ha fatto un lavoro fantastico ed è anche riuscita a trasformare una parte del mercato di Testaccio, che esiste attualmente, in un mercato ortofrutticolo dell’epoca. Ha davvero curato meticolosamente ogni dettaglio perché sembrasse reale. Per eliminare le antenne sui tetti dei palazzi del rione di oggi sono invece stati utilizzati gli effetti digitali, mentre gli interni li abbiamo ricreati a Cinecittà.
Valerio Mastandrea è un cattivo… cattivo.
(Ride). Esattamente. È un cattivo non affascinante. In famiglia tutti lo temono, ma è anche un pochino idiota. Con Mastrandrea volevamo essere sicuri che nessuno si immedesimasse in Ivano perché a volte i personaggi negativi sono fighi e quindi vengono emulati. Grazie alla bravura di Valerio il suo personaggio non è iconico. Lui è un grande attore ed è riuscito a creare un antieroe che su Delia usa una violenza sia fisica che psicologica, facendola sentire inetta e inadatta.
A proposito di discriminazione femminile, esiste anche nel cinema?
Nel mio percorso lavorativo ho notato tante volte degli atteggiamenti discriminatori. Sono capitati a me come ad altre colleghe. In questo mio debutto alla regia, invece, sono stata molto fortunata perché ho avuto un grande appoggio da parte di una produzione composta sia da uomini sia da donne. Nel film non faccio proclami femministi, faccio il mio mestiere e racconto storie. Se qualche donna si è rispecchiata nella protagonista, però, ne sono molto onorata.
Per raccontare la violenza femminile ti sei documentata?
Come ti dicevo, mi sono basata sui racconti di un tempo però ho anche studiato alcuni atti processuali di oggi. Purtroppo le dinamiche sono le stesse del passato: la vittima viene isolata, umiliata, fatta sentire una nullità e picchiata. Nel film non si parla solo di maltrattamenti fisici e psicologici, ma anche di temi che purtroppo sono sempre attuali come la differenza nel trattamento economico tra lui e lei nel mondo del lavoro.
Secondo te come si può fermare o limitare l’abuso sulle donne?
La sottocultura del terrore ci dice che ogni 72 ore si consuma una violenza domestica. Un dato raccapricciante. Personalmente vorrei che si facesse educazione sentimentale a scuola e che si insegnasse ai ragazzi e alle ragazze la delicatezza, il rispetto per gli altri e per se stessi, il valore delle emozioni. Ci vorrebbe un lavoro congiunto tra la scuola e i genitori perché solo formando giovani consapevoli si può creare un futuro di uguaglianza reale. È importante anche documentarsi per capire che non siamo più negli anni ‘40, ma che certe situazioni esistono ancora. Parlare, condividere, confrontarsi è fondamentale per conoscere.
Tornando al film, ti aspettavi tutto questo successo?
Ci speravo, perché ho fatto attenzione ad ogni dettaglio, ma non immaginavo di ricevere questo immenso affetto da parte dei colleghi e del pubblico. Sono felice perché ho fatto il film che volevo e come volevo perché sai, quando scrivi non è sicuro che le cose vadano come le pensi. Per me è stata una grande soddisfazione realizzare questa pellicola, ma aver ricevuto tanta stima è qualcosa di travolgente.