Lo sappiamo tutti. George Floyd è deceduto il 25 maggio scorso a Minneapolis, a causa di una manovra da parte di un agente di polizia, mentre lo arrestava per un furto da venti dollari, che gli ha provocato la morte per soffocamento. E quegli otto lunghi e tristissimi minuti che Floyd ha impiegato a morire, nonostante dalle trascrizioni depositate presso il tribunale della città fosse evidente la sua richiesta di aiuto e l’impossibilità a respirare, non sono bastati per fare restare in cella tutti gli agenti di polizia accusati della sua morte. Erano quattro i poliziotti che sono intervenuti, ma due di loro, Thomas Lane e Alexander Kueng, hanno pagato una cauzione di 1 milione di dollari il primo e 750 mila dollari, il secondo e sono usciti. L’assassino, Derek Chauvin, per ora resta in carcere accusato di omicidio di secondo grado. Da allora, molte città americane hanno condiviso, fortunatamente, il divieto di questa tecnica durante un arresto. La morte di Floyd non è diventata solo un urlo che ha dato vita ad un nuovo movimento contro il razzismo – Black Lives Matter (Le Vite dei Neri Contano) – ma ha prodotto un monito universale contro la violenza di cui la società americana resta ancora la protagonista assoluta del mondo occidentale. La riflessione che emerge, a mio parere, dalle manifestazioni di piazza che si sono susseguite, giorno per giorno nelle settimane a seguire, non hanno solo rappresentato una protesta gigantesca contro il razzismo, ma contro soprusi, violenze e quel “sistema giustizialista” oramai sdoganato, che gli americani
raccontano anche attraverso popolari serie televisive. In occasione di una morte assurda, ritengo però molto interessante un aspetto: non sono stati i tweet i protagonisti o le dirette Facebook, ma la gente che è scesa nelle piazze americane, europee e di casa nostra.
Fra il 6 e l’8 giugno scorsi, infatti, nelle città di Roma, Milano, Torino, Bergamo, Napoli, Firenze, Bologna e moltissime altre, sono arrivati cittadini di ogni cultura, età e genere, a manifestare contro la morte di un uomo che è diventato una vera e propria icona contro la violenza con la V maiuscola. Otto minuti di silenzio e in ginocchio: è così che hanno manifestato in tutte le piazze. Immagini che per chi, come me, le ha viste, restano indelebili e provocano tanta amarezza e delusione. Tuttavia, la società civile esiste. Non vogliamo fare dell’inutile retorica o commenti qualunquistici su come tutto va male, lo Stato non ci aiuta e via discorrendo. Non è così. La società civile è rappresentata da noi e da tutti coloro che credono fortemente che le regole vadano seguite da parte di tutti, nessuno escluso, e che la violenza non può più essere la giustificazione per nessun atto criminoso. I protagonisti, questa volta, sono stati i cittadini. Non più (ed in questa triste occasione, per fortuna) Instagram e Facebook. La “rete” c’era, certo, ma le persone hanno sentito il bisogno fortissimo, nonostante il caldo, il virus e chissà quale altro limite personale, di essere “insieme” per affermare il principio della vita e della giustizia. Cosa sta cambiando nel modo di comunicare quindi? Forse niente o poco. Perché tutto il linguaggio è cambiato già da un decennio: per parlare usavamo il cellulare in modo tradizionale, ma oggi lo usiamo anche per “parlare in differita”, registrando la nostra voce con messaggi vocali tramite WhatsApp. Comunichiamo attraverso FaceTime o Skype e non ci accorgiamo che il linguaggio è sempre più conciso e impersonale. La brevità dei messaggi non conduce al risparmio del tempo, è un’illusione. Provoca distrazione, riduce il livello di attenzione, oltre che ad impoverire il messaggio che si trasmette. Tuttavia, questo “nuovo” linguaggio ha anche prodotto dei vantaggi, e cioè che ci si può raggiungere rapidamente anche dall’altra parte del mondo rispetto a dove ci si trova. E non solo: con l’arrivo del virus abbiamo sviluppato una comunicazione più strutturata, che ci ha portato a realizzare delle riunioni di lavoro a distanza, così come la didattica, le presentazioni, gli eventi. E questo è sicuramente un aspetto molto positivo. Ed è proprio questo il punto. In un momento storico difficilissimo, dove il mondo intero si è trovato a combattere un nemico invisibile e dove il lavoro stesso ha cambiato faccia attraverso un uso totalizzante del computer e del cellulare, una violenza come quella accaduta al povero Floyd ha fatto in modo che le persone si trovassero insieme, in carne ed ossa, nelle stesse piazze e nello stesso momento. A dispetto della paura della pandemia e di mille possibili disagi, milioni di persone hanno scelto di comunicare con il loro corpo e la loro voce e questo non può non essere tema di riflessione. Pensiamo anche alla fotografia uscita sui quotidiani, con decine di poliziotti inginocchiati in segno di scuse in memoria dell’uomo ucciso. Tutto questo significa che la distrazione che ci porta a comunicare in modo frettoloso e a volte sgrammaticato, non ci ha però mai allontanato dal desiderio di essere sempre testimoni di una società che vuole restare civile ed unita anche grazie al linguaggio più potente: tutti noi.