Giuseppe Culicchia: “Ho iniziato a scrivere grazie a questo libro”


Lo scrittore presenta il suo primo memoir incentrato sul rapporto con il cugino Walter Alasia, brigatista ucciso a vent’anni in uno scontro a fuoco con la polizia.
Un racconto senza vittimismo né retorica ma con tutto il dolore di un bambino che a undici anni perde in una sola notte un affetto immenso e tutte le certezze che credeva di avere. Tutto questo viene descritto con la lucidità di un grande scrittore che ha cercato per oltre quarant’anni la giusta distanza per raccontare questa storia.

Già nel precedente romanzo, “Il cuore e la tenebra” edito da Mondadori e recensito come una delle migliori produzioni letterarie del 2019, non era il solito, ironico, Giuseppe Culicchia.
La sua verve al di fuori del comune viene comunque fuori nel narrare le vicende del protagonista, un figlio che apprende della morte del padre, un famoso direttore d’orchestra di Berlino, e in quella occasione affronta, con profondità, temi quali la disgregazione della famiglia, l’amore per i figli, la morte e il distacco. Con “Il tempo di vivere con te”, il passo è ulteriore.
Si tratta di un memoir, naturalmente intimo ma pur sempre in stile Culicchia, sconvolgente per quanto è asciutto.
Lo scrittore, ex libraio nato a Torino nel 1965 da un barbiere siciliano e un’operaia piemontese, ha pubblicato una trentina di libri tradotti in dieci lingue. Il suo esordio è subito un successo, “Tutti giù per terra” riceve premi prestigiosi e diventa
anche un film. Seguono “Il paese delle meraviglie”, “Brucia la città” e “Torino è casa mia”.
Poi molte traduzioni importanti come “Le avventure di Huckleberry Finn” per Feltrinelli e la raccolta “Lo sfidante” di Tooleper per Garzanti. Dal francese, il saggio “Perché i mega-ricchi stanno distruggendo il Pianeta” di Hervé Kempf.
Nel 2021 è in libreria con “Il tempo di vivere con te”, Einaudi edizioni.
Il nuovo romanzo è frutto di pagine tenute in serbo per più di quarant’anni. È il racconto della morte di Walter Alasia, al cui nome è legata la colonna milanese delle Brigate Rosse. Si tratta di una storia dolorosa che lo tocca molto da vicino: per il Paese è un fatto pubblico, uno dei tanti episodi che negli anni di Piombo finivano tra i titoli dei quotidiani e dei notiziari televisivi; per lui e la sua famiglia è una ferita che non guarirà mai.
Walter Alasia, morì a vent’anni. Era figlio di due operai di Sesto San Giovanni. Giovanissimo aveva cominciato la sua militanza in Lotta Continua e poi era entrato nelle fila delle Brigate Rosse. Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 la polizia fece un blitz a casa dei suoi genitori per arrestarlo. Lui aprì il fuoco, e nel giro di pochi istanti persero la vita il maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega e il vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani. Subito dopo tentò di scappare, ma venne raggiunto dai proiettili della polizia.

Partiamo dalla copertina: cosa ci dici della foto?
In questa foto, scattata da mio zio, c’è Walter con una pistola giocattolo appena ricevuta in regalo, seduto sulle gambe di sua mamma, mia zia Ada. Lui guarda quel dono come tutti i bambini ammirano con sorpresa qualcosa di nuovo, mentre sua madre ha come un’ombra nello sguardo, come fosse un presagio di quello che accadrà.

Perché questo titolo, “Il tempo di vivere con te”?
Il titolo si rifà a una strofa di “Giardini di marzo” di Lucio Battisti, una canzone che Walter suonava con la chitarra e che cantavamo spesso assieme.

Chi è Walter?
Walter era mia cugino ma era un po’ come fosse stato mio fratello maggiore, a cui io ero molto legato. Era un ragazzo generoso, paziente, estroverso, che, tutte le volte che ci vedevamo, giocava con me, mi insegnava a disegnare, ad andare in bicicletta sul manubrio, a fare canestro.

Tuo cugino è stato ucciso in un blitz della polizia non prima di riuscire a uccidere due poliziotti. Quanti anni avevi allora?
Quando Walter è morto in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine a Sesto San Giovanni, dove viveva con la famiglia, i miei zii, io avevo dieci anni e lui venti. Io ovviamente non sapevo nulla della sua scelta. Mi chiedo tutt’oggi come sia stato possibile che un ragazzo di vent’anni potesse fare determinate scelte.

Come hai appreso quella drammatica notizia?
Seppi cosa era successo prima dalla TV e poi da mia zia, quando fu possibile rivederla. Dai suoi racconti e da quelli dei barellieri che per primi arrivarono sul luogo sono riuscito a ricostruire l’accaduto.
Walter venne finito con un colpo di pistola dopo essere stato ferito alle gambe. Era inerme nel cortile di casa. Questo naturalmente non toglie nulla al fatto che fu lui il primo a sparare e a uccidere, solo che giustiziare
così un omicida mi pare sia stato un modo singolare di esercitare la giustizia. Un poliziotto intervistato dalla Rai, non a caso, parlò infatti di una sconfitta dello Stato.

Attraverso questo racconto hai anche voluto raccontare quel periodo, i cosiddetti “Anni di piombo”, fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta.
Sono stati anni che hanno inghiottito un’intera generazione di giovani, sia da una parte, in chi militava in gruppi di estrema sinistra e di estrema destra, sia dall’altra, in chi faceva parte delle forze dell’ordine. Il racconto parte dai miei ricordi personali e da quello che scrissero i giornali e i cronisti dell’epoca e da saggi storici sul periodo.

Anche quelli che stiamo vivendo sono anni che entreranno nella storia come incredibilmente tragici.
Siamo a oltre centomila morti, un numero simbolico e spaventoso. Per tanto tempo la nostra cultura ha rimosso l’ultimo grande tabù, quello della morte, che invece improvvisamente è tornato un tema quotidiano.
Se penso ai camion militari che portavano via le bare di Bergamo mi viene in mente che al tempo degli antichi, dell’Odissea, dell’Iliade, c’era la separazione tra dei e mortali. Ecco, noi lo avevamo rimosso, ma apparteniamo ai mortali. Abbiamo dovuto fare i conti con la nostra finitezza, che per certi versi – con molte virgolette – è anche un bene. Voglio dire: è anche giusto fare i conti col fatto che non siamo eterni.

Quando si scrive un memoir è perché si ha dentro qualcosa che ci si porta dietro per anni. Tu hai tenuto queste pagine nascoste per quarant’anni. Cosa ti ha spinto a renderle note solo oggi?
In questo libro io mi rivolgo a Walter come se stessi scrivendo a lui e potessi dirgli ora tutte le cose che non ho potuto dirgli. Io ho amato quel ragazzo.
È il libro che avrei sempre voluto scrivere, quello per il quale ho iniziato a scrivere e che oggi, finalmente, sono riuscito a terminare.


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