In un’autobiografia aneddoti e carriera di una leggenda del calcio italiano con il pallone tra i piedi, nella testa e nel cuore.
Quando si incontra un fuoriclasse non importa il colore della casacca. Tutti, indistintamente, ne riconoscono il valore.
Questo è il caso di Franco Baresi. La sua storia coincide per ben ventitré anni con quella del Milan. Nessuna altra squadra nel suo cammino, come non accade più, e prima maglia ritirata nella storia del calcio italiano.
Nel mezzo tanti titoli conquistati, tra cui sei scudetti, tre Coppe dei Campioni e due Intercontinentali.
Dopo il campo, ancora Milan, prima sulla panchina della Primavera e poi dietro a una scrivania, fino alla carica di vicepresidente onorario nel 2020.
Tutto questo è raccontato nell’autobiografia “Libero di sognare” edita da Feltrinelli e scritta insieme al docente universitario Federico Tavola. La leggenda del Milan ha voluto imprimere su carta non solo i retroscena nascosti della sua straordinaria carriera calcistica tra trionfi e sconfitte, ma anche dare la sua opinione sul calcio di oggi, senza dimenticare l’infanzia contadina nella sua Travagliato e i personaggi incontrati lungo la strada.
Come nasce questo libro?
Sentivo l’esigenza di raccontare la mia storia per rispondere alle molte domande che mi vengono fatte sulla mia carriera, a partire dalla prestazione nella finale ai Mondiali o sul come sia stato possibile raggiungere così tanti traguardi. Volevo raccontare cosa c’è dietro di me, come giocatore e come uomo. Mi auguro di poter emozionare e di essere da stimolo per i più giovani.
Come si diventa Franco Baresi?
Sono diventato quello che sono perché ho vissuto quello che racconto. Per chi come me arriva da un’infanzia difficile ci vuole tanta forza di volontà, coraggio, determinazione, bisogna continuamente mettersi in gioco.
Il messaggio è che si può realizzare il sogno ma bisogna essere in grado di saper mettere da parte i desideri del momento. Se sono qui oggi è anche perché il Milan è stata una seconda casa per me, una famiglia, la società che a 14 anni mi ha dato l’opportunità di crescere. Oggi sono ancora parte di un gruppo che ha raggiunto grandi traguardi.
Il libro si apre con una citazione di un gigante del cinema, Werner Herzo, che, come si legge, vorrebbe capire gli uomini e gli spazi come Franco Baresi ha capito il mondo del calcio. Fa un certo effetto…
Dice questo perché credo che mi abbia compreso molto bene come persona.
Negli sport di squadra è importante capire il compagno, per non lasciare indietro nessuno. Sono diventato capitano a 22 anni e non ero pronto a quel ruolo di responsabilità con cui ho imparato a convivere anno dopo anno. Per riuscire ad essere un buon capitano, fondamentale è dare l’esempio sul campo e fuori e non dimenticare mai i compagni. Herzog ha capito questo aspetto di me che può sembrare banale.
Il filo rosso del libro è quel maledetto rigore sbagliato, tirato per primo ai Mondiali americani, epilogo di una prestazione monumentale per quanto imprevista perché successiva ad un infortunio che l’ha portata a stare fuori dal campo per ben venti giorni.
Quella prestazione è frutto della solidarietà riscontrata durante la mia infanzia, nella riconoscenza della gente, nella forza mentale, dal fatto di avere la responsabilità di essere il capitano e dal desiderio di vedere nel futuro sempre il lato positivo.
Anche l’ultima immagine del libro è il suo pianto disperato dopo la sconfitta in quella finale con il Brasile. Scrive che da quel momento in poi ha potuto svelare le sue fragilità…
Non sapevo quello che potevo dare in quella partita e se il mio ginocchio avesse retto. Si impara dalle sconfitte così come dalle vittorie: se vinci devi avere rispetto dell’avversario e se perdi devi pensare a migliorarti e che si può sempre fare di più.
Capitolo Sacchi. Quale fu il primo impatto?
Non sapevamo quale fosse il suo pensiero, eravamo curiosi. Capimmo subito che la sua filosofia era dare priorità all’allenamento. Voleva che giocassimo sempre a mille all’ora. Non eravamo abituati ad allenarci con quella intensità. Con il tempo ci fu chiaro che seguendolo potevamo da- re seri problemi all’avversario e in effetti andò così. Voleva sempre la squadra corta e l’organizzazione che ci ha insegnato, a me come ad altri, ha allungato la carriera.
Nel mio reparto, quello difensivo, ognuno di noi migliorava l’altro. Io, Billy e Paolo (Costacurta e Maldini, ndr) siamo durati tantissimo.
Tra i personaggi incontrati lungo la sua strada in rossonero una menzione speciale spetta sicuramente a Silvio Berlusconi. Nel libro c’è anche il racconto del suo arrivo a Milanello.
Il grande fautore di tutto è stato lui. Quando arrivò a Milanello ci trasmise da subito grande serenità. Continuò ad essere molto attento ai dettagli, anche alle nostre famiglie.
Fin dal primo momento volle costruire qualcosa di straordinario, scegliendo dirigenti competenti e professionali come Braida e Galliani. Berlusconi si innamorava dei giocatori e metteva tutti nelle condizioni migliori. Gli piaceva parlare di calcio e confrontarsi anche con noi.
Era appassionato, competente, e ascoltava tutti, dal primo all’ultimo arrivato.
Con lei in campo si aveva sempre l’impressione che il Milan avrebbe comandato il gioco e l’immagine iconica di quella squadra è il suo braccio alzato.
Quando ho iniziato a giocare a zona mi sentivo più a mio agio e la mia intenzione era quella di avere la squadra in mano e di fare sempre il passo in avanti, avevo voglia di fare un gioco propositivo e offensivo. Ho avuto la fortuna di saper capire il gioco e di avere una forza mentale che in ogni partita mi faceva trovare degli stimoli. Credo di essere stato il giocatore con più continuità per prestazioni positive.
Nel libro spiega anche come nel calcio di oggi non ci sia più poetica.
Con l’arrivo dei social tutto è cambiato. Il calciatore è preoccupato della propria immagine e rischiano di passare in secondo piano l’aspetto umano, la riconoscenza verso i tifosi e la passione.
Si è travolti dall’interesse personale e questo non fa bene al calcio e sicuramente meriterebbero altro i giovani e i bambini che seguono i propri idoli. Non ho mai avuto procuratori, non credo di averne avuto bisogno e mi ha molto amareggiato l’addio di Messi al Barcellona: uno come lui, cresciuto in quella società fin dalla prima squadra e che con quella maglia ha vinto tutto, credo sia stato consigliato da altri e che forse una soluzione diversa si sarebbe potuta trovare.
L’ultimo pensiero nel libro è dedicato alle generazioni future.
Ho voluto ricordare anche i tanti errori fatti e i tanti rimpianti perché bisogna entrare nell’ottica di non sentirsi invincibile, del rispetto dell’avversario e del riconoscere chi è più bravo di te.
Vorrei trasmettere tutto quello che ho imparato nella mia vita ai più giovani. Anche i premi personali come il Pallone d’Oro non mi sono mai interessati, mi hanno sempre esaltato di più le vittorie con la squadra.
Superata la soglia dei 60 anni oggi chi è Franco Baresi?
Semplicemente Franco.
Conferma che ancora oggi quando viaggia per lavoro conta le ore che la separano da sua moglie?
Tutto vero. La famiglia, gli affetti e gli amici sono importantissimi