Innamorata del suo lavoro e del rapporto con il pubblico, la conduttrice televisiva crede nell’informazione vera che arriva al cuore delle persone.
Per lei i sentimenti sono la chiave della vita e nei suoi programmi lascia che a parlare sia l’anima di ognuno.
Una carriera folgorante all’insegna della notizia. Si può riassumere così la vita professionale di Francesca Fialdini, un concentrato di intelligenza, sensibilità e bellezza.
Dagli esordi ad oggi è passata con disinvoltura dalla radio alla televisione, conducendo programmi come il notiziario di Radio Vaticana, “Unomattina in famiglia” su Rai 1 con Tiberio Timperi, “Unomattina” con Franco Di Mare, “La vita in diretta” al fianco di Marco Liorni. Tra le sue ultime fatiche “Da noi… a ruota libera” su Rai 1 e “Fame d’amore”
su Rai 3, portati avanti con successo nonostante il Covid-19.
Ci presenti Francesca Fialdini in tre aggettivi?
Passionale, sognatrice e selettiva. Passionale perché ogni giorno faccio l’amore con il mio lavoro, che mi offre uno sguardo continuo sul mondo e mi permette di imparare dagli altri. Sognatrice in quanto mi piace guardare oltre l’orizzonte, che è un modo per cercare continui stimoli per la mia creatività.
Selettiva perché ho imparato a vagliare le relazioni e a vivere solo quelle sane. I rapporti umani sono come il cibo e nutrono la nostra anima, per questo evito quelli tossici e conservo quelli che mi fanno stare bene.
Informazione di qualità: un dovere?
Oltre che un dovere è anche un piacere. Le due cose vanno a braccetto perché credo che sia un’ambizione alla quale tende chi fa questo lavoro. Quando hai a che fare con la vita degli altri devi avere il desiderio di imparare da chi incontri perché un punto di vista diverso può essere prezioso anche per la crescita personale. Inoltre il rispetto del prossimo è sacro e tutti, incluso chi fa informazione, deve ricordarlo.
È difficile non immedesimarsi nelle vite che racconti?
Ryszard Kapuscinski, ne “Il cinico non è adatto a questo mestiere”, sosteneva che è sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita. Io ho imparato a lasciar andare le redini e ad immedesimarmi il più possibile nelle storie delle persone che intervisto. La televisione di intrattenimento è anche una televisione di informazione che crea un ponte di empatia tra lo spettatore e la persona che si sta aprendo davanti alla telecamera. La tv non ha filtri e se ti mozioni, quel sentimento arriva diretto nelle case degli italiani. Se invece rimani lucido e freddo, avrai svolto un lavoro tecnicamente perfetto, ma nulla di più.
Cosa rende “Da noi… a ruota libera” un format di successo?
La forza del programma è proprio la scoperta di potersi emozionare tutti insieme. Non a caso lo studio di Torino in cui lavoravamo prima del lockdown era di forma circolare. In questo modo sia io sia il pubblico eravamo simbolicamente insieme intorno ad un tavolo. La ruota è un cerchio e rappresenta quasi un grande abbraccio dove tutti siamo coinvolti in egual misura. Le storie delle persone che vengono in studio a raccontare le loro vite sono un esempio per ognuno di noi perché questi protagonisti si mettono in gioco per cambiare le cose, dimostrando con coraggio che se si vuole, si può fare.
In “Fame d’amore” parli di dipendenza dal cibo. I ragazzi che hai intervistato cosa ti hanno insegnato?
Grazie a loro ho capito che la fragilità è una virtù, perché mostrare le proprie debolezze purtroppo ancora oggi è un tabù e tanti si stupiscono quando, ad esempio, un politico piange in televisione. Più che criticare chi ha la forza di mostrare la propria sofferenza o la propria fragilità, dovremmo capire che dietro a quelle lacrime c’è una battaglia personale e c’è una
profonda sensibilità. I ragazzi che ho incontrato in “Fame d’amore” mi hanno sorpresa perché desiderano mettere in luce che i disturbi alimentari nascono da relazioni primarie non soddisfacenti o da genitori che proiettano i loro progetti sui figli senza ascoltare le loro esigenze. Questi padri e queste madri non concedono ai ragazzi di essere liberi e felici per ciò che sono o vorrebbero essere. In questo modo creano un corto circuito perché il figlio soddisfa i desideri dei genitori, ma va in crash con se stesso.
La famiglia è sicuramente il luogo primario in cui intercettare questi disturbi, ma è anche importante fornire ai genitori gli strumenti adatti per aiutare i loro ragazzi. Spesso infatti le mamme e i papà rischiano di sentirsi sconfitti se non riescono ad affrontare il dolore di chi amano. Sovente il tema della bulimia e dell’anoressia è trattato da un punto di vita mediatico
e giornalistico come fosse semplicemente un paradigma estetico, mentre per i giovani l’aspetto fisico non è importante.
Loro in realtà vogliono scomparire insieme con il loro corpo. Il lavoro che devono fare per riprendere in mano la loro vita è lungo e faticoso e per sentirsi bene hanno bisogno di essere amati e, soprattutto, amare il proprio fisico. Questi disturbi, se presi in tempo, possono essere risolti e si può vincere la battaglia, ma essendo legati all’anima e alla mente, se non vengono curati possono durare per tutta la vita.
Il Covid-19 ha cambiato il modo di fare informazione?
Lo ha sicuramente stravolto da alcuni punti di vista. Il racconto giornalistico e l’informazione si sono dovuti piegare all’utilizzo di tecnologie diverse da quelle utilizzate in uno studio televisivo. Gli strumenti più usati sono stati i cellulari e i collegamenti tramite Skype e, sicuramente, in termini di fluidità tutto è stato diverso. Ciò che si è salvato è il reportage, anche se ha avuto delle limitazioni perché gli spostamenti per molto tempo sono stati vietati. Questo nuovo modo di fare informazione è stato più sterile e anche quando ci sono stati dei collegamenti con gli esperti, non essendo nell’ambito di un talk show, l’insieme delle restrizioni ha reso tutto più freddo e asettico.
Ti è mancato il rapporto con il pubblico?
Quando entravo in studio a Torino per la trasmissione “Da noi… a ruota libera” trascorrevo tanto tempo con le persone che mi trasmettevano tutta la loro energia e mi passavano informazioni ed emozioni. Grazie a loro avevo un feedback continuo sul mio operato. Il pubblico ti aiuta a tirare fuori ciò che pensi di non avere. Le storie che raccontavamo durante la trasmissione erano ricche di colpi di scena e adesso tutto questo ci è stato tolto. I loro racconti li possiamo sintetizzare, ma l’emozione che passa è totalmente diversa.
Come immagini la “nuova” normalità?
Più che in termini di comportamento credo che dovremmo fare i conti con le emozioni represse, le paure che abbiamo coltivato in questi mesi e gli stress emotivi. Ormai l’altro è diventato il principale sospettato, il possibile portatore di contagio. Dovremmo ripristinare i rapporti con le persone, ma anche cercare una rinnovata fiducia dentro di noi.
Purtroppo dovremo anche creare una nuova prossimità fisica che esclude l’abbraccio e l’emotività, elementi fondamentali per gli esseri umani. Spesso ci viene detto che le emozioni sono superficiali, ma in realtà sono una forma di conoscenza.
L’intelligenza emotiva è nel nostro Dna e sin da piccoli viviamo di emozioni che ci servono per entrare nel mondo ed esprimerci, ad esempio attraverso un pianto, un sorriso o una corsa gioiosa. Noi che facciamo informazione dovremmo trovare nuove forme di emozioni senza banalizzarle, perché sono i sentimenti la vera porta verso il futuro.