Figli a casa: “Mai pensare che basti la famiglia”
Carestie, guerre e pandemie sono catastrofi sociali che lasciano più di una ferita in chi ha la fortuna di superarle. La storia insegna che, oltre a salvare la pelle, non se ne esce senza comprendere a fondo il contesto sociale e senza saper, per tempo, ridisegnare le fondamentali dinamiche socioeconomiche e relazionali.
Questo è quanto mai vero nella fase in cui ci troviamo, quella della cosiddetta ripartenza, e per questo abbiamo interpellato Chiara Saraceno, una delle sociologhe italiane di maggior fama riconosciuta per i suoi studi sulla famiglia, sulla povertà e sulle politiche sociali.
Il tema dell’infanzia è stato per lo più assente negli interventi pubblici di questo governo, sia nella forma, perché troppo spesso abbiamo sentito parlare di approccio solidale, ma soprattutto nella sostanza, con misure inadeguate. Innanzitutto, come bisognerebbe approcciarsi al tema infanzia?Affrontare il tema dell’infanzia è una questione di diritti non di solidarietà: bambini e ragazzi devono avere spazi educativi che non siano soltanto la famiglia e, al contempo, i genitori lavoratori devono poter avere luoghi sicuri in cui poter affidare, con serenità e sicurezza, i propri figli.
Veniamo alla sostanza. I bambini non ritornano a scuola per carenze infrastrutturali e per assenza di un progetto chiaro su come evitare assembramenti.
Mi lasci dire che trovo incredibile che, mentre sui protocolli per riaprire le attività produttive si sia iniziato a lavorare presto, sulla scuola la commissione sia stata insediata a fine aprile.
Il problema vero della scuola è che per due mesi non si è fatto nulla in assoluto, neanche imbiancare gli edifici più fatiscenti. Per poter garantire il distanziamento c’è bisogno di ristrutturare gli spazi interni e di individuare
altri luoghi, come parchi, musei, cinema. Si richiede anche un ripensamento della didattica.
Tutte necessità esistenti anche prima della pandemia e che questa emergenza ora mostra come indispensabili.
È risaputo, ad esempio, che le classi andrebbero formate da 15 studenti e non da 30, così come l’aula con tutti i banchi allineati davanti alla cattedra corrisponde a un’idea della scuola un po’ ottocentesca che in Italia continua a rimanere un punto fermo. Alcune sperimentazioni ci sono, ma all’estero valide alternative ci sono da tempo. Nella didattica
on line proposta in quarantena si è pensato solo a modificare lo strumento di comunicazione e non a come insegnare. Se anche in questa fase si procederà nello stesso modo, tutto sarà ancora più difficile.
Bisogna subito far fronte all’emergenza scolastica.
In altri paesi dove le scuole stanno riaprendo è chiaro che si parte dai più piccoli perché diversi studi rivelano come nei bambini tra uno e dieci anni ci sia una rarissima possibilità di ammalarsi. Il problema è controllare i genitori, per cui in paesi come la Danimarca ma anche altrove, hanno ristretto i gruppi non tanto per proteggere i bambini quanto gli adulti, educatori, personale e altre famiglie. Credo che si scaglioneranno gli orari di entrata ed uscita sempre per ridurre il numero dei contatti. In questo modo, in caso di contagi sarà più facile risalire a chi ha contratto il virus.
Molti pediatri e anche alcuni esperti del governo sono favorevoli a riaprire le scuole.
L’importante è che non passi il messaggio che tanto basta la famiglia perché tutte le letterature internazionali dimostrano come già dai primi mille giorni di vita del bambino sia importante vivere esperienze educative in senso lato. Le famiglie non sono uguali, pensiamo a chi vive in condizioni di sovraffollamento o con problemi di tipo igienico.
La pandemia non ci rende tutti uguali ma amplifica le disuguaglianze.
Questo vale per tutti e tanto più per i minori svantaggiati che non trovano nell’ambiente familiare stimoli opportuni per lo sviluppo di capacità cognitive e relazionali. I piccoli iniziano ad essere interessati agli altri bambini già ad un anno. Torno a dire che, proprio per il bene del bambino, è sbagliato pensare che per la cura dei minori basti la famiglia, anche perché lei mi sa dire chi starà di più a casa? (sorride, ndr).
Parlando di donne e smart working ci si chiede come possa essere agile il lavoro se ci si deve occupare anche di figli,anziani, soggetti deboli.
Questo non è smart working ma lavoro a distanza svolto in situazioni di profonda complessità. Tuttavia, l’aspetto positivo c’è: questa situazione ha obbligato le aziende e anche la pubblica amministrazione a constatare che, dopo averne a lungo sostenuto l’impossibilità, è invece fattibile lavorare a distanza, anche se ancora con resistenze fortissime. Il problema è che lo si è fatto dall’oggi al domani, anche in sfregio degli accordi che faticosamente si erano raggiunti sulla regolamentazione. Così, per alcuni è diventato telelavoro con obbligo di orario prestabilito, mentre per altri si verifica l’impossibilità di distinguere lo spazio del lavoro da quello personale e questo lavoro in più non è remunerato. II lavoro a distanza può essere uno strumento di conciliazione, utile anche a ridurre i flussi nei trasporti, ma quello
che si sta verificando per molti è la negazione della flessibilità: viene richiesto di fare tutto insieme e nello stesso spazio. In ogni caso, mi sento di dire che il lavoro a distanza non è la soluzione, né per il lavoro stesso né per gli effetti che si hanno sui figli.
In Italia da sempre si è fatto affidamento ai nonni, centrali nel sistema di cura.
Affidarsi a loro, visto che gli anziani sono fragili, è sconsigliato. Così il nostro paese si scopre ancora senza alternative…
Il rischio è che, se non si trovano altre soluzioni, molti nonni torneranno a fare i babysitter a tempo pieno. Chiudersi in casa con i nipoti poteva essere in qualche modo sicuro durante il lockdown, ma ora che i nipoti si possono portare fuori, sia in città sia in vacanza, vivremo – e le parlo in prima persona – con ansia anche questo rischio.
Un suo recente editoriale su un quotidiano nazionale ha come titolo “Il contagio della povertà”. Ci può spiegare cosa intende?
Già nel 2008 erano precipitati in povertà soggetti che mai avrebbero creduto che potesse accadere a loro. Questa volta il dramma non arriva dal mercato ma avviene a seguito di una decisione dello Stato, che per rispondere a problemi sanitari e di sicurezza, ha stabilito la chiusura delle attività. Chi subisce è impotente. Oltretutto, a distanza di due mesi è scandaloso che vari sussidi non siano arrivati ad una larga fetta di popolazione. Mi riferisco alla cassa integrazione.
Altre misure come il bonus da 600 euro sono state predisposte totalmente a prescindere dal bisogno effettivo. Molte categorie non ricevono assolutamente nulla. Dopo due mesi non tutti avevano risparmi a sufficienza.
Personalmente non amo la definizione di vecchia e nuova povertà, semmai di vecchi e nuovi poveri, ma è indubbio
che la prima non è sparita e certamente non migliora: chi era povero prima lo sarà di più oggi perché si sono perse anche le piccole occasioni di lavoro. I nuovi poveri fanno fatica a percepirsi come tali e devono imparare a chiedere, cosa non facile, e probabilmente c’è anche tanta povertà nascosta.
Penso a chi viveva di stagionalità o di espedienti. Soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo, per molte colf e badanti – ad esempio – o si accetta di lavorare in nero o non si lavora.
Come commenta l’assenza di presenze femminili nel Comitato tecnico scientifico e nelle altre task force?
Il numero uno della Protezione Civile Borrelli ha dichiarato, sollecitato dalla stampa, che avrebbe auspicato una maggiore presenza femminile ma “purtroppo – parole sue – non ci sono donne ai vertici”.
Non in tutti gli ambiti ci sono vertici e non è vero che non ci siano donne. Considerando la mia età, le lascio immaginare da quanto tempo parlo di queste tematiche. Sentire ancora dibattiti su questo, nel 2020, mi fa venire il mal di cuore. Questa volta è stato particolarmente grave e spiego perché: è vero che c’è un uomo alla guida dell’Istituto Sanitario Nazionale ma non è più come quando ero giovane io, oggi le donne ci sono, basti pensare alla scienziata che per
prima ha isolato il virus.
Invece di dire che non ci sono donne, si chiedessero come mai non sono state nominate?
Così è come fare un errore e poi farne altri, per giustificarsi.
Le faccio un altro esempio: stimo enormemente l’ex ministro Giovannini che siede in uno dei comitati pur non essendo al vertice di nulla: chiaramente è stato chiamato perché competente. Non siamo qui a dire che le donne siano tutte competenti, anzi. Quel che preoccupa di più è il fatto che in nessun comitato si sia pensato ad un uomo o ad una donna con competenza in materia di conciliazione tra famiglia e lavoro. Presenti esclusi, non vorrei essere fraintesa.
Sono in molti, mi creda, a sperare invece che qualcuno ci ripensi e, perché no, la chiami.
Grazie e buona fortuna!