Aldo Cazzullo “Eravamo un popolo di contadini poveri. Eppure eravamo più felici di adesso”


Inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera dal 2003 dopo quindici anni trascorsi alla Stampa, Aldo Cazzullo ha scritto sulla storia degli Stati Uniti e dell’Europa degli ultimi venticinque anni, seguendo le campagne elettorali di Chirac, Bush, Abu Mazen, Sarkozy, Obama, Trump, Macron, oltre la politica internazionale e, ovviamente, la nostra. Ha scritto molti libri sulla storia del nostro Paese, raccontandone debolezze e contraddizioni – “L’Italia de Noantri” del 2009, “Metti via il cellulare” del 2017 – ma anche della sua straordinaria vitalità – “Basta piangere” del 2013 e “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione” del 2018. Tutti i suoi libri sono stati dei successi, superando, sempre, le centomila copie vendute.

In “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione”, scrive dell’Italia del ‘48, di un Paese che è stato capace di affrontare una Ricostruzione con la R maiuscola, nonostante gli italiani avessero sofferto moltissimo.“(…) E ancora pativano la fame, il freddo, le malattie. Eppure sapevano lavorare e divertirsi. Appassionarsi alla politica. Sorridere.”Oggi la maggior parte di noi non ha più fame, né freddo. Ma la Ricostruzione è cosa vecchia e la sua memoria è sconosciuta alle generazioni più giovani che non possono permettersi il lusso di sperare in un futuro stabile. Non ci riconosciamo più nella storia del nostro Paese?

Secondo me gli Italiani del ‘48 non erano migliori di noi. E non erano diversi. Ma avevano sicuramente una capacità maggiore sia nel gestire la sofferenza che nel darsi un aiuto reciproco. Non avevano un senso dello Stato più forte di quello che abbiamo oggi. Erano individualisti e familisti esattamente come lo siamo noi, ma erano più vitali e facevano di più l’amore. Ricordiamoci che sei anni dopo la liberazione, le scuole italiane dovettero applicare i doppi turni per permettere a tutti i bambini di frequentarle. Gli italiani del dopoguerra guardavano al futuro con maggiore fiducia. Era un sentimento molto più diffuso di adesso. Pensavano che il futuro sarebbe stato migliore del presente se si fossero impegnati a fondo.

La società di oggi

Nella nostra società, abbiamo poca fiducia e un senso di individualismo molto forte che è diventato sinonimo di narcisismo, ovviamente sterile per definizione. L’amore per se stessi è sicuramente un’attitudine sana, ma diversa è l’ansia di dovere costantemente comunicare al mondo cosa facciamo. Ecco, io credo che il punto sia proprio questo: l’Italia è un Paese che non sa più soffrire e forse proprio per questo finirà con il soffrire moltissimo. Io sono orgoglioso di essere italiano, ma oggi sembra quasi che la gente se ne vergogni. Siamo la terra di cose belle e buone, e questi che sono i valori che i nostri padri ci hanno lasciato, abbiamo il dovere e la responsabilità di difenderli.

A questo proposito, nella rubrica che tiene sul Corriere della Sera pubblicata lo scorso 18 aprile, ha risposto ad un lettore che criticava come fosse stata gestita la campagna referendaria del dicembre 2016, spiegandogli che la democrazia del nostro Paese è in crisi “(…) perché facciamo fatica a concepire che una persona possa fare qualcosa nell’interesse di qualcuno che non sia se stesso o la famiglia”. Mi chiedo se da noi il valore della democrazia possa essere rafforzato in qualche modo.

Nel caso specifico sollevato da quel lettore, gli Italiani sono andati a votare contro o a favore di Renzi, e non per un sistema di regole che potesse disciplinare il loro futuro che era il tema del Referendum. Avrebbero potuto sfruttare l’opportunità di votare per migliorare queste regole, snellire i tempi in Parlamento, ridurre il numero stesso dei parlamentari. Non è stato letto così ed è diventata la campagna referendaria dell’uno contro tutti. Purtroppo la questione è che la democrazia rappresentativa è in crisi in tutto il mondo, ma per come siamo fatti noi, in Italia, lo è ancora di più. E lo è proprio per quello che ho scritto e cioè che fatichiamo a credere che una persona possa fare qualcosa nell’interesse di qualcuno che non sia se stesso o un proprio caro. L’idea stessa di Parlamento è in crisi. Nessuno ci crede. La gente non ha fiducia che un cambiamento positivo sia possibile. Molte delle persone che incontro non credono che avranno mai delle leggi migliori. Indipendentemente da quale sia il governo del momento. Le istituzioni hanno perso la partita più importante che è quella di essere creduti. Mi chiedo come possa rafforzarsi una democrazia in un contesto simile.

Parlando di Brexit, la Gran Bretagna, la prima ed unica potenza europea che sembrava poter permettersi di stare da sola, oggi non è in grado di gestire e forse compiere questa separazione. Una parte d’Italia segue da tempo quest’idea secessionista, con più o meno allarmismo. Esiste realisticamente questo rischio?

Secondo me la Brexit si è rivelato un errore clamoroso. Un Paese storicamente forte come la Gran Bretagna ora si trova impantanata in una serie di “se”, senza riuscire a prendere una decisione definitiva. Ad oggi il “no” è la risposta per qualunque proposta: No alla Brexit, No al secondo Referendum, No a nuove elezioni. Non sempre il popolo decide in modo razionale. Eppure la Gran Bretagna avrebbe tutti i vantaggi a stare in Europa: il mercato unico, una mano d’opera a basso costo, la storica capacità di attrarre “cervelli” dagli altri Paesi. E senza svantaggi: nessuna moneta unica, nessun accordo di Schenghen. Tuttavia, molti cittadini inglesi non erano più disponibili ad accogliere portoghesi, italiani, lituani, spagnoli, europei disposti a lavorare tanto e a poco, appiattendo in qualche modo le condizioni del mercato del lavoro inglese. E non dimentichiamoci la paura che hanno di essere travolti dai flussi migratori provenienti dall’Africa. Le immagini della giungla di Calais, di gente che cercava di passare clandestinamente la Manica, hanno avuto sicuramente un effetto deterrente. In più, resta il fatto che la Gran Bretagna ha l’idea, nemmeno troppo peregrina, che l’Europa sia una grande costruzione in mano alla Germania, e questo significherebbe dover chinare la testa ai tedeschi.

L’Europa

La Signora Le Pen, in Francia, non parla più di uscire dall’Europa, e non credo che in Italia una qualunque ipotesi secessionista possa avere un seguito. La stessa Lega è tornata indietro su questo tema e questo perché non si tratta più di voler essere fuori o dentro l’Europa, ma piuttosto di volerla cambiare. A mio parere, l’alleanza popolare socialista che in Europa potrebbe estendersi ad altre forze come i liberali o i verdi, reggerà. Sarà una sorta di sistema-antisistema che può resistere. In Italia è più complesso. Le condizioni economiche del nostro Paese sono difficili ed è anche per questa ragione che qualunque forza politica si trovi a guidare il Paese è destinata a logorarsi rapidamente.

Oggi i porti sono off limits. Il nostro Paese non vuole più accogliere. Il rischio terrorismo ha consolidato una paura ancora più antica e intanto il leader libico Al Sarraj lancia un allarme sulle migliaia di profughi che presto cercheranno di arrivare in Europa. Il tema immigrazione resta irrisolto e rischia di far scoppiare una bomba. Lei crede che un’integrazione fra Occidente ed Oriente sarà mai possibile?

L’immigrazione è inevitabile. Che lo si accetti o meno. Pensiamo all’Africa: a sud ha l’Antartide, a Ovest l’Atlantico e a Est l’Oceano Indiano. Restano i confini del Nord, dove c’è una piccola isola che può essere raggiunta con i gommoni. E se pensiamo che in Niger fanno sette figli a testa, è evidente che gli africani vogliono arrivare in Europa. E ci riusciranno. Un’osmosi fra i due continenti è solo una conseguenza naturale. Questo però non significa che i flussi non debbano essere regolamentati. Se il salvataggio in mare è sacro, è altrettanto doveroso non trasformare il traffico umano in abitudine. Gli sbarchi ed i negrieri vanno fermati. L’integrazione dovrebbe essere la tappa successiva, ma è un meccanismo complicato.

Esempi di integrazione

Ci sono esempi sia positivi che negativi: il sindaco di Londra di cognome fa Khan, con un padre pakistano che guidava gli autobus. Suo figlio oggi fa il sindaco di una grande città e lo fa anche bene. E questa non è una storia di integrazione straordinaria? Per contro la rivolta delle periferie francesi, che conosco molto bene, ha suscitato molto clamore. Lo stato francese è stato accusato di averle abbandonate ma non è così. Ha investito moltissimo nelle periferie. Ci sono stati addirittura casi di associazioni che sono state letteralmente inondate di denaro e poi l’hanno tenuto senza reinvestirlo. Il problema non è dato dai soldi. È il perpetuarsi dei privilegi che toccano solo alcuni, senza consegnare a tutti le stesse opportunità.

L’integrazione in Italia

In Italia le cose non sono diverse. Anche perché noi non siamo un popolo di Élite, non abbiamo una classe dirigente che si distingue per cura e talento. È un Paese dove ricchi e poveri sentono nello stesso modo e dove il popolo elogia l’ignoranza. Se ieri non sapere era una vergogna, oggi è un vanto. L’ignoranza è in qualche modo rassicurante. Il politico che non conosce bene la grammatica italiana piace perché è uno di noi.   Il politico che twitta quello che fa o quello che mangia, ci assomiglia. E intanto i politici non capiscono che bisogna rinunciare ai privilegi. Che ancora oggi in Italia, un qualsiasi amministratore delegato venga pagato con bonus milionari, indipendentemente se abbia fatto bene o male il suo lavoro è oltremodo assurdo. Si paga lo status e non il merito. E poi c’è una cosa molto italiana che ci tengo a sottolineare: il divario fra ricchezza e cultura. Molte persone colte in Italia sono povere, non tanto di soldi quanto di opportunità, mentre molti ricchi non sono colti, né tanto meno sono interessati ad esserlo. Ed è a questa mancanza di uguali opportunità alla quale bisogna ribellarsi.

Ha seguito molte campagne elettorali nel mondo, fra cui gli Stati Uniti. Cosa pensa della trasformazione che sta subendo questo Paese con Trump, molto criticato e spesso paragonato a Berlusconi?

Un po’ in tutto l’Occidente si è aperta una forbice fra ricchezza e lavoro. Una volta la ricchezza si produceva con il lavoro, durissimo. Oggi invece, sembra quasi che il lavoro sia una palla al piede e che siano solo i soldi a produrre altri soldi. Se oggi un’azienda licenzia, la quotazione in borsa salirà. E Trump vince per questo. È capace di intercettare i voti degli operai bianchi negli stati industriali e post industriali del Midwest del Nord: Michigan, Ohio, Minnesota, Wisconsin. Vince nonostante le previsioni dei Repubblicani che pensavano fosse un candidato debole, quando invece era fortissimo. Ha superato il candidato democratico Hillary di tre milioni di voti, sebbene la Clinton fosse andata molto bene in Stati come il Texas e la California.

Il talento di Trump

Il talento di Trump nasce dalla sua capacità di arrivare a tutti. Nessuno meglio di lui ha saputo interpretare il linguaggio della rete, della gente. Mia figlia dice che la rete è contro Trump ma non è vero. Lo è quella porzione di ragazzi della sua età che la abita, ma la maggioranza lo ascolta. E lo fa perché lui traduce quella comunicazione istintiva, fatta di invettive, insulti, falsificazioni, fake news. Ovviamente è una comunicazione negativa. Ma funziona. Lo show televisivo condotto da Briatore “sei fuori” è la copia dell’iconica frase “you’re fired” della trasmissione “The Apprentice”, lanciata da Trump. Per quanto riguarda possibili confronti con Berlusconi, secondo me il paragone non regge. Berlusconi è un editore, uno che le televisioni le ha sempre possedute e che non ha usato il web. Trump è un personaggio della New York degli anni ‘80, uno che ha sfruttato le televisioni per acquistare potere e notorietà. Ed è veramente figlio del suo tempo.