Speciale emergenza Covid-19 Crisanti: “La vera sfida sarà in autunno”


Andrea Crisanti è direttore dell’Unità diagnostica di microbiologia e virologia dell’Università di Padova. Dopo lo screening sulla popolazione del comune di Vo’ Euganeo, il suo approccio all’emergenza Coronavirus lo ha reso una delle voci più autorevoli sul tema.
Il suo studio ha fatto il giro del mondo, evidenziando per primo la presenza di un’altissima percentuale di asintomatici (il 75% dei positivi).
Ora è palese ai più: non solo in presenza di focolai ma ovunque il fattore di rischio più preoccupante è il contagio indotto dagli asintomatici. Proprio per questo gli abbiamo chiesto di fare il punto.

Professore, gli asintomatici sono una variabile “misurabile”?
Purtroppo gli asintomatici o vengono identificati con i tamponi o non c’è altro modo, non fanno anticorpi e non hanno appunto sintomi. Sono i fantasmi del sistema sanitario.
L’unico modo per identificarli è seguire le persone che si ammalano che sono la sentinella per dirci dove c’è l’infezione. Lo
studio di Vo’ ci ha permesso di stabilire che la possibilità di infettarsi in casa è di 100 volte superiore di chi vive con un familiare sano. Altri paesi hanno scelto di isolare un contagiato da altri familiari, in Italia questo non è stato fatto e così abbiamo registrato moltissima trasmissione familiare e per così dire ‘istituzionale’: in ospedale, nei luoghi di lavoro e nelle case di riposo.

Si può dire se il virus ci rimane dentro o lo eliminiamo completamente?
Stanno emergendo numerose persone asintomatiche che rimangono positive per molto tempo, anche due mesi. La scienza non è ancora in grado di dire perché queste persone rimangono positive così a lungo ma una prima risposta ci viene dall’analisi del plasma di persone che hanno superato la malattia: anticorpi neutralizzanti ad alta concentrazione
si trovano soltanto in persone che hanno avuto una grande sintomatologia.
Persone asintomatiche non fanno anticorpi o ne fanno pochissimi. Evidentemente queste persone rispondono alla malattia in modo completamente diverso. Potrebbe non far piacere ma è bene sapere che ci sono numerosi agenti patogeni che convivono con il sistema immunitario per anni.
Al momento non ci sono dati per stabilire se ci troviamo o meno di fronte a questa situazione.
Se così fosse, dovremmo capire le cause della permanenza del virus o latenza.

La sua strategia dei tamponi, che ha funzionato in Veneto, si potrebbe replicare in altri contesti?
La Regione Veneto ha capito l’importanza dei tamponi non soltanto come strumento di diagnosi ma come strumento di sorveglianza attiva, vale a dire l’importanza dell’identificare la persona che ha trasmesso l’infezione al nuovo malato. Abbiamo letteralmente chiuso l’ospedale di Padova e fatto tamponi a tutti. Questo ha permesso che lo stesso ospedale non diventasse un focolaio. Se in quell’ospedale fosse successo quello che è successo all’ospedale di Alzano Lombardo, tutto il Veneto sarebbe stato in ginocchio perché l’ospedale di Padova ha 15 mila visitatori al giorno. Proprio la consapevolezza che potessero esserci degli asintomatici ha fatto sì che si decidesse per la chiusura immediata e per fare i tamponi su pazienti e dipendenti. Chiunque a Padova sapeva che, anche al minimo sospetto di poter essere entrato in contatto con un infetto, sarebbe potuto venire in ospedale a farsi un tampone.
Questo ci ha permesso di intercettare moltissimi casi prima che questi a loro volta infettassero altri. La curva decrescente di oggi in Veneto non è un caso: la sorveglianza attiva è particolarmente efficace all’inizio e alla fine dell’epidemia.

Insieme ad altri studiosi ha lanciato un appello. Di che si tratta?
In una fase in cui le misure di restrizione vengono via via rimosse e in cui si ha inevitabilmente un aumento della trasmissione, la richiesta che portiamo avanti è di farci trovare preparati per novembre perché la vera sfida sarà in autunno. Chiediamo al governo di aumentare la capacità di fare tamponi, capacità essenziale quando scoppieranno
nuovi focolai: dobbiamo poter aggredire il virus prima che si blocchi l’economia di una regione o peggio, di nuovo, di tutta l’Italia.

Che cosa la preoccupa di più di una nuova ondata di contagi?
In autunno avremo passato due o tre mesi con un numero di casi estremamente basso e quindi anche psicologicamente il nostro atteggiamento verso la pandemia sarà cambiato e le nostre difese si saranno attenuate.
Allo stesso tempo, mi preoccupa la capacità di risposta della sanità pubblica, che potrebbe non essere adeguata alla minaccia.

Qual è la ricetta per eliminare nuovi focolai?
Una sola: bloccare i movimenti di tutte le persone nella zona dove il focolaio si è manifestato e testare tutti, mettere in isolamento le persone positive e ritornare dopo una settimana, dieci giorni, per verificare se qualcuno è sfuggito a questa prima rete e isolarlo.
Questo funziona, però, se si ha la capacità di fare i tamponi, anche centomila o duecentomila e in pochi giorni.

Sempre dell’avviso che il vaccino non possa essere la soluzione?
Penso sia assolutamente doveroso investire nei vaccini che sono lo strumento più efficace per combattere una malattia infettiva. Bisogna, però, tener conto che non è possibile fare vaccini per tutte le malattie.
All’inizio per l’Aids c’è stato un proliferare di ricerche per un vaccino che ad oggi non abbiamo.
Non siamo riusciti a fare un vaccino contro l’Epatite C e per la Malaria. Abbiamo un vaccino contro la Tubercolosi che è vecchio di cinquant’anni e nessuno è mai riuscito a migliorarlo. Le aspettative nei confronti di un vaccino mi preoccupano perché non c’è la giusta consapevolezza nell’opinione pubblica che sviluppare un vaccino è molto difficile e spesso
la sperimentazione non necessariamente viene coronata da successo.

Quanto crede negli anticorpi dei guariti somministrati agli attuali malati, sul ricorso al cosiddetto plasma “iperimmune”?
Sembra che questa sia la più grande novità nel mondo quando in realtà la immunoterapia si fa in Italia quotidianamente da almeno cinquant’anni. Questa procedura non è altro che anticorpi prelevati da altre persone che sono state immunizzate, è la stessa cosa che avviene con il tetano o con la rabbia. In questo caso non abbiamo il tempo di produrre
le immunoglobine e si dà il plasma che è la ‘sostanza madre’.
Detto questo, ci sono problematiche nella somministrazione: bisogna verificare che il donatore abbia gli anticorpi, che questi siano nella concentrazione giusta, che siano in grado di bloccare il virus e la sua infettività nelle cellule, e occorre verificare che questo campione non contenga altri patogeni. Una procedura non facile e certamente non alla portata di tutti gli ospedali.

Sarebbe quindi più utile la tracciabilità di massa?
Come il vaccino, non saprei dire se avremo mai la tracciabilità di massa attraverso l’implementazione di una soluzione tecnologica perché servono garanzie da dare ai cittadini, con implicazioni politiche e tecnologiche molto complesse.
Al momento non sappiamo come funzionerà l’App Immuni ma posso dire che nutro dei dubbi perché, da quanto ci viene detto, dovrà aderire almeno il 60% della popolazione.
Ammesso che questa percentuale aderisca, dal momento che si stima che una persona abbia il 36% di probabilità di intercettarne un’altra, quindi un terzo, e che il numero di casi diagnosticati oggi è limitato soltanto a quelli in ospedale, che sono probabilmente un quarto o forse un quinto del 36%, un’App di questo genere non ha molto senso.

Come giudica l’operato dell’OMS?
L’OMS ha sbagliato tutto lo sbagliabile perché si è completamente affidata ai dati forniti dalla Cina che è un Paese in cui la trasparenza non è certo un valore. Ma soprattutto mi piacerebbe sapere che cosa hanno ispezionato gli esperti dell’OMS quando sono andati in Cina. Credo che questa sarà una delle questioni alla quale l’OMS sarà chiamata a rispondere. Sono quindi d’accordo con coloro che ipotizzano che la posizione dell’OMS sia stata influenzata da considerazioni geopolitiche più che di sanità pubblica di interesse mondiale.

 

I bambini torneranno a scuola?
La nostra esperienza indica che i bambini non si ammalano e non si infettano anche in presenza di adulti, vicini e infetti. A Vo’, su 250 bambini da 1 a 10 anni non c’era nessuno infetto, e una ventina di bambini conviveva con persone infette che a loro volta avevano trasmesso il virus. Questa esperienza non va presa come una regola generale assoluta per dire che nessun bambino si infetta perché purtroppo non è così.
Detto questo, se in una classe c’è un bambino infetto, difficilmente questo infetterà gli altri bambini. Il problema è come gestire questo bambino infetto e far sì che non infetti nessun adulto, genitori, insegnanti, educatori. Proprio in questi giorni le scuole materne stanno valutando se sia possibile fare delle riaperture programmate, è chiaro che si potranno fare degli esperimenti e riaprire una scuola materna in una zona dove il contagio è bassissimo, assicurandosi che i bambini con sintomi in nessun caso vengano a scuola e con classi e percorsi separati, in modo da evitare contatti in un’eventuale
diffusione del virus.

Si parla anche di limiti per gli over 60. Che ne pensa?
Contrariamente a quello che si pensa non sono le persone anziane a trasmettere la malattia ma sono purtroppo i giovani perché hanno più contatti, in loro molto spesso la malattia si manifesta in maniera asintomatica e per questo sono inconsapevoli. Sono i  giovani che poi trasmettono la malattia alle persone vulnerabili. Di fatto sono i giovani che possono mettere a rischio la società.
Un consiglio da dare ai giovani? Vorrei che i più giovani riflettessero sul mondo che noi tutti stiamo lasciando ai nostri
figli: un mondo bello ma anche molto fragile. Il futuro dipende dalla responsabilità: è importante che tutti, genitori e figli, non si sentano solo fruitori ma parte di una società.


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