Artista a tutto tondo, Paolo Ruffini è conosciuto al pubblico soprattutto come attore comico, da “MTV” a “Bla Bla Bla”, “Stracult” e i più recenti “Comedy Central” e “Colorado Cafè”, così come per alcuni dei film di maggior successo dei fratelli Vanzina e Neri Parenti. Ma Paolo Ruffini è anche un autore e uno scrittore, che nel 2015 diventa fondatore di un progetto straordinario: “Up & Down”, nato dalla collaborazione con la compagnia teatrale “Mayor Von Frinzius”, che si sviluppa grazie ad un percorso cross mediale che coniuga il teatro con l’omonimo spettacolo in tour da quattro anni; il cinema, con il documentario del 2018 “Up & Down – un Film Normale”; l’editoria, nel 2019, con il libro “La Sindrome di Up”, dove l’artista descrive come fosse quasi un diario di viaggio, un’indagine sulla felicità e sull’esperienza che ha vissuto e vive tuttora con i suoi compagni di lavoro. Lo abbiamo incontrato a Torino, dove ci ha presentato il suo libro ed il suo progetto.
Si tratta di Resistenza – ci ha spiegato – quando quattro anni fa ho iniziato questo percorso, sono stato considerato un pazzo. Non mi stupisce. Viviamo in un Paese che se da un certo punto di vista è all’avanguardia – penso allo sviluppo che ha avuto la Scuola – da un altro non sa mantenere dei modelli culturali e resta legato ad un sentimento atavico di vergogna.
Perché quando si va in giro e si vedono persone lamentose e magari anche un po’ rompicoglioni ci sembra normale? E soprattutto chi è normale e chi è diverso, e rispetto a cosa?
Up and Down
La caratteristica maggiore che hanno le persone down e che descrivo nel mio libro è che sono “Up”, cioè molto più su di morale rispetto alla media di persone che non vivono disabilità. Li descrivo come dei supereroi perché hanno il talento di insegnarti ad essere felice e che esserlo è possibile. E quindi se un rompiscatole musone non si deve vergognare perché è un atteggiamento socialmente sdoganato, perché dovrebbe farlo una persona down? Ecco, il libro che ho scritto è anche su questo: un’indagine su un pregiudizio sbagliato che non solo limita la vita di un individuo che deve poter essere libero di esprimere se stesso, ma anche delle famiglie che si sentono intrappolate nella sensazione che avere un figlio “difettoso” significa essere genitori sbagliati e difettosi.
Essere genitori di persone disabili non è facile ovviamente. Fortunatamente, uno dei progetti che si sono sviluppati meglio nelle nostre città riguarda proprio alcune filiere di associazioni come, ad esempio, “Dopo Di Noi”, che si occupano dei ragazzi down che si ritrovano soli dopo la morte dei genitori. Le vite di questi ragazzi sono evidentemente più complicate e difficili delle nostre, ma è assurdo che oltre a quel disagio, si sentano ulteriormente costretti ad affrontare un sentimento come la vergogna. Questo è quello che si deve combattere.
La vergogna deve essere trasformata in opportunità e il limite in un punto da superare per quanto possibile. Anche perché nella mia esperienza alcune di queste storie sono pazzesche ed hanno come protagoniste persone veramente interessanti.
Ragazzi down
La gente comune non è mediamente d’accordo con questo però; se da un lato abbiamo sicuramente fatto dei passi avanti con la Legge Basaglia e fortunatamente non ci sono più essere umani legati ai termosifoni, siamo tuttavia passati dal relegare i disabili a condizioni di vita discutibili, al tipico pregiudizio del “poverino”, di un pietismo collettivo che li descrive troppo spesso come dei “ragazzi speciali”. Si dice proprio così: “sono ragazzi speciali”… ma loro non vogliono essere speciali, non gliene importa nulla di esserlo. Loro vogliono essere normali laddove la normalità possa esistere. La normalità che descrivo in questo libro ed in cui credo non è data sicuramente dal numero di cromosomi che abbiamo in corpo. Essere down, oggi, è quasi una rivoluzione.
Cosa ti ha portato a realizzare questo progetto?
Il mio amico Lamberto porta la diversità sul palco da moltissimi anni e quando cinque anni fa ho visto un suo spettacolo con 95 corpi, di cui circa la metà disabili, che si confondevano tra loro diventando vita, sono stato così colpito da quell’armonia che non potevo lasciarla andare. D’altronde il tessuto sociale del teatro non è quello della realtà. Anzi ti dirò di più: il palco non ti guarda in faccia. Se hai le stampelle e sei un attore, dovrai partire da casa quattro ore prima rispetto a me che deambulo bene.
Il teatro sulla diversità fa questo: ci butta un faro sopra e la trasforma in una risorsa. La bellezza che ho sempre trovato nel fare teatro è che raggiungi la gente. Si usa il palco, ma per me si potrebbe fare teatro ovunque. E questo è un aspetto fondamentale perché significa che il teatro non può essere declinato in una moda elitaria, ma è solo un salotto dove viene svolto uno spettacolo universale.
Per me il teatro è Pop e con loro ho scoperto che può essere Ultra Pop. Ed educa. E’ un grande formatore. I cellulari sono spenti e sei costretto ad entrare in connessione con te stesso e con l’attore. Per i più giovani dovrebbe essere un riferimento concreto, anche perché i modelli giovanili di oggi sono complicati. I giovani non hanno più miti e i miti hanno bisogno di distanza. Ma da quando esiste il web, il mito è sparito. Non si cerca più. L’accesso al mondo è facile ed immediato e la conseguenza è che si eliminano i confini, rischiando di smarrirsi.
Film Ruffini
Com’è stato girare un documentario per un attore abituato a fare comicità in modo più tradizionale?
Ho fatto questo documentario rischiando ovviamente di non essere preso sul serio. Sono conosciuto al pubblico per i cine panettoni, Vanzina, i film di Natale; insomma mi mancava di fare “topo gigio” e poi avevo fatto tutto. Ma poi ho pensato che sono proprio i clown che fanno i piccoli miracoli. Fare ridere è sempre un incanto. Non potevo tirarmi indietro. In fondo è sempre una questione di libertà. Non ho dovuto chiedere né scusa, né tanto meno permesso. Ho prodotto io questo progetto, senza sponsor ed i ragazzi ricevono lo stipendio come chiunque altro. Quindi non è stato un atto di beneficienza, l’ho fatto per me.
Un atto egoistico. E che mi ha cambiato. Ora invece di prendere uno spritz, magari mi ritrovo a bere un bicchiere di latte, e ho imparato a fare un passo indietro… una bella terapia per la mia vanità!
Sono soddisfatto. I ragazzi down non sono mai stati protagonisti del cinema italiano o della televisione. Per lo più sono stati accolti come ospiti in qualche trasmissione televisiva senza esserne i protagonisti. Quando ci ha chiamato il Moige per premiarci come migliore spettacolo andato in onda su “Italia Uno” la notte di Natale, infatti, non ci potevo credere. Ci siamo sentiti dei pionieri.
Il linguaggio comico, nel cinema di oggi, dà spazio per fare ancora del buon cinema?
E’ sempre una questione di libertà. Le idee ci sono. Ma non sempre le idee sono accompagnate da altrettanta libertà.
Andrea, Giacomone, David, Giacomo, Simone, Federico ed Erika. Gli attori della compagnia “Mayor Von Frinzius”
e compagni di Paolo Ruffini in questo bellissimo percorso.
La sindrome di Up
Ecco un breve stralcio del libro “La Sindrome di Up” – che Ruffini ci legge – dove ognuno di loro, meglio di chiunque altro, spiega brevemente cosa sia l’amore, la felicità, la vita.
Paolo: Andrea cos’è per te la felicità? Andrea: Per me la felicità è bella. E’ stare con gli amici. P: Come si fa a essere felici? A: Per me è l’amore che fa felici. Io amo tutti e sono ancora più felice. P: E cosa dici della tristezza? A: No. La tristezza non la
voglio sentire. P: Sei mai stato triste in vita tua? A: Mai. Una volta Sì. Quando è morta la mamma di Bruno. Il mio amico del cuore. P: Ma come fai ad essere sempre felice? A: Perché voglio bene a tutti. Perché io sono bontà e tenerezza. Come Dio. P: E Dio com’è? A: Dio è un po’ come me e un po’ come te.
Paolo: Ti faccio una domanda difficile: rende più felici amare o essere amati? Giacomone: Essere amati. Ed essere felici. P: Quindi per te la vita è felicità? G: Sempre. P: E quand’è che sei stato più felice in vita tua? G: Ieri. Perché ho litigato. P: Hai litigato. E perché ti ha reso felice? G: Perché avevo voglia di litigare. P: Ti diverti a scontrarti? G: Mi volevo sfogare! P: Ma è vero che per i down è più facile essere felici? G: Si. P: Tu sei down? G: No. Io sono guarito.
Paolo: David tu sei felice solo con gli amici o anche con il mondo? David: Sono felice al mondo. P: L’amore rende felici? D: Non ho trovato l’amore. P: Non hai ancora trovato l’amore? D: No. Non l’ho proprio trovato. Ho cercato dappertutto ma non l’ho trovato. Ma piano piano riuscirò a trovare la fidanzata. Io non mi arrendo mai. Ci vuole pazienza. P: Ti consideri un po’ speciale? Hai qualcosa di particolare? D: A volte sono metà. P: Sei Down? D: Non sono down. Sono cresciuto. P: Sei autistico? D: No. Non sono autistico. Sono gentile.
Cos’è la felicità?
Paolo: Giacomo cos’è per te la felicità? Giacomo: Non essere disabile. P: Spiegati meglio. G: Se dovessi rinascere preferirei essere down. Almeno i down possono camminare. P: Qual è stata la volta in cui sei stato più felice? G: Quando mi sono lanciato con il paracadute. P: E allora vola sempre! Così anche un disabile può essere felice. G: Si certo. Poi vabbè, al disabile lì per li girano anche un po’ i coglioni. Però poi si è felici. P: Ma tu sei incazzato con la vita? G: No, Perché? Pensavi di si?
Paolo: Simone, ti volevo fare una domanda: cos’è la felicità? Simone: La felicità…Valeria. P: Valeria. Chi è Valeria? S: La mia fidanzata. P: Ah. Sei innamorato? S: Tanto. P: E cosa fate con Valeria? S: Guardiamo la televisione, balliamo. P: Simone, dimmi una cosa. Tu sei felice? S: Sì. Ho detto di sì. P: Quando? S: Quando sorrido. P: E sei mai triste? S: Eh… P: Quando? S: Quando mi manca la mia mamma. P: E cosa fai quando sei triste? S: Piango. P: Simone, dimmi ancora cos’è la felicità. S: La felicità è musica.
Paolo: Federico, questa è un’indagine sulla felicità. In questo momento ti senti felice? Federico: Abbastanza. P: Sei felice quando? F: Quando sono in me. P: E quando sei in te? F: Quasi mai. P: Perché? F: Dipende da cosa mi frulla in testa. P: E cosa ti frulla in testa? F: Le donne. P: Le donne ti rendono felice? F: No! Zero! P: Allora perché le frequenti? F: E chi devo frequentare?
Paolo: Erika per te cos’è la felicità? Erika: E’ tante cose. P: E l’amore? Ti da felicità? E: Sì. L’amore è bellissimo per me. P: Ma si può essere felici senza essere innamorati? E: Quello si! P: Tu sei una donna passionale. Sei femminista? E: No. Sono felice. P: Sei generosa? E: No. Sono gelosa. P: Ho capito. Ma è più importante vivere o essere felici? E: E’ la stessa cosa. P: Com’è la vita per te? E: La vita mi commuove.
Grazie