Giovanni Berardi, ospite di Plus Magazine nel 2018 con il libro “La solitudine degli umili”, ci presenta il suo nuovo romanzo “L’ispettore Berri non dimentica”: un filo robusto collega le due opere in modo indissolubile.
Questo nuovo libro non è più una cronaca ma una narrazione immaginaria, Giovanni.
È un misto tra realtà e immaginario e si svolge in un tempo volutamente indefinito perché non volevo legarlo a quel periodo e farlo invecchiare troppo in fretta. L’ho scritto utilizzando la chiave narrativa del giallo e l’ho ambientato a Torino, nelle strade di borgo Vanchiglia, perseguendo nel mio impegno per non dimenticare le vittime del terrorismo. Considerato che non è cambiato nulla; anzi, è cambiato tutto in peggio, posso affermare con tranquillità che infine hanno vinto i terroristi. Lo si può rilevare facilmente da molti aspetti della nostra società; sono diventati opinion maker, giornalisti, scrittori seguiti, cancellando tutto ciò che accadde in quegli anni. Se nel nostro paese esistono ancora delle piccole percentuali di libertà e di democrazia, lo si deve al sacrificio di chi contrastò quel fenomeno.
Puoi anticiparci qualche elemento della trama?
La storia racconta le vicende del poliziotto Berri, l’ispettore indaga e le vicissitudini gli fanno ripercorrere la tragedia del terrorismo. Nel libro fa delle affermazioni che condivido in pieno e per me sono reali. Ho voluto mettere in risalto la figura del poliziotto, una figura che oggi viene sempre più bistrattata. Pochi comprendono che quelli che tirano le pietre alla polizia possono farlo liberamente perché oggi anche loro vengono difesi dalle forze dell’ordine.
Nella parte di realtà riprendi i temi trattati nel tuo primo libro “La solitudine degli umili”, un tracciato che solca un periodo storico impressionante per noi italiani, durante il quale un numero di persone superiore a quelle morte nell’attacco alle Torri Gemelle sacrificarono la loro vita per difendere la nostra libertà. Quei fatti vengono citati anche qui? E questa volta c’è un lieto fine oppure anche questo romanzo termina nell’amarezza?
Hai colto nel segno; indirettamente ho preso degli spunti, piccole citazioni, senza legarlo troppo a quegli eventi. Un lieto fine? Non direi, le ultime pagine descrivono la contraddizione che vive il protagonista, conteso tra la soddisfazione
per aver compiuto il proprio dovere e il pregresso che non si può sanare. Tra l’altro è molto legato a “La solitudine degli umili” perché nel libro anche gli antagonisti sono rimasti umili, e infine soli. Traditi da quegli idealismi di rivoluzione, ne sono usciti perdenti e abbandonati. Non vorrei offendere nessuno, questo libro lo affido all’intelligenza e alla memoria lettore affinché colga le molte allusioni che vi ho nascosto.
Qual è stato, secondo te, il senso di tutta questa tragedia?
I terroristi sono stati anch’essi vittime sfruttate da un’élite tuttora dominante nel nostro paese. Anche gli ultimi fatti di cronaca lo confermano, siamo al cospetto di una classe intoccata e intoccabile che continua a mentire e manipolare
l’opinione pubblica su quegli eventi per cancellarli dalla memoria. La mancanza di rispetto per le vittime di ogni colore testimonia il livello di decadenza morale e l’infamia di una classe politica che ha calpestato i principi e i valori fondamentali pur di sopravvivere a se stessa.
Un motivo in più per cui invito tutti i nostri associati ad acquistare e regalare il romanzo “L’ispettore Berri non dimentica” insieme al precedente “La solitudine degli umili” è lo scopo benefico di queste operazioni editoriali.
Con immensa soddisfazione ho potuto fare la mia piccola parte devolvendo l’intero provento alla fondazione Marco Valerio che sostiene i figli dei poliziotti affetti da gravi malattie infantili e sarà così anche per questo romanzo.
Chissà che in futuro la vena scrittoria di Giovanni Berardi possa regalarci un terzo atto su queste vicende.
C’è di mezzo il vissuto personale, perché da una parte avrei voluto chiudere col passato e voltare pagina, così come da più parti mi viene consigliato, ma poi scatta sempre qualcosa che non mi consente di abbandonarmi all’oblio. Questa non è una pagina che posso chiudere da solo, è una pagina che va chiusa come va chiusa, ma non sta ancora avvenendo
e, a giudicare da ciò che vedo, temo non avverrà mai. Sono passati 43 anni dall’assassinio di Moro e da quello di mio padre; da quando abbiamo fondato con Maurizio Puddu l’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo, immergendomi in queste vicende e assorbendone come una spugna il dolore, anche quello degli altri, non è cambiato nulla.
Manca la volontà politica di dire la verità e chiudere una volta per tutte la vicenda.
Per esempio, quella mattina in via Fani dovevano esserci circa duemila o tremila persone, eppure nessuno vide nulla. Non una sola testimonianza. Poi la continua ribalta offerta agli ex terroristi da talk show dove non c’è contradditorio mentre le famiglie delle vittime vengono ignorate o compatite. C’è un netto sbilanciamento tra le parti a favore dei carnefici nel più
completo silenzio istituzionale. Sono arrivati al punto di chiamarci professionisti della sofferenza, posizioni inaccettabili a cui non posso piegarmi. Aspetto ancora il giorno in cui un magistrato si alzerà in piedi e si assumerà la responsabilità di dire tutta la verità, svelare le zone d’ombra sui coinvolgimenti eccellenti e porre la pietra tombale su quella stagione.
Le verità nascoste nella storia della repubblica sono ben più d’una.
È un vizio che ricorre tragicamente, dalla strage di Bologna a quella di Brescia, fino a Ustica, eppure si accusano immancabilmente fantomatici terroristi autogestiti di destra o di sinistra senza fornire prove convincenti, mentre si abbandonano le indagini ogni volta che emergono riscontri in grado di condurre dritti al cuore dello stato. La prefazione di Luciano Borghesan, giornalista de La Stampa, sottolinea la tua tenacia definendola irriducibile, come traspare dal fervore delle tue parole per aiutare tutti noi a non dimenticare e continuare a cercare le verità nascoste.