Le relazioni interpersonali nel mondo professionale sono un crogiolo di continui fraintendimenti, disparità, invidie, risentimenti e confluiscono sovente in situazioni conflittuali. Quando lo affermo, mi sorprendo per lo stupore manifestato da certe persone che ambiscono a un’immagine di vita aziendale edulcorata che ben si allontana dalla realtà. Al di là di stereotipi consunti alla “vogliamoci bene”, “siamo come una grande famiglia” e di atteggiamenti ipocriti di manierata cortesia, la verità sta nell’accettare l’idea di un’aggregazione forzata, e non scelta, di persone che condividono spazi, progetti, lavoro quotidiano. Il conflitto è un aspetto inevitabile della vita sociale e le divergenze di opinione sono fisiologiche. Secondo Friedrich Glasl, uno dei maggiori esperti in materia di conflitti, è possibile descrivere le varie fasi di un conflitto attraverso un modello di escalazione in nove punti. In assenza di autocontrollo, il modello conduce progressivamente la situazione da un’iniziale atteggiamento negoziale e collaborativo a un’insanabile ostilità paralizzante.
Riflettiamo dunque, prima di innescare una spirale incontrollabile e distruttiva per noi e per le persone che ci stanno intorno. L’esperto di gestione dei conflitti Adam Kahane nel suo libro “Usa il tuo nemico” dimostra come l’ideale di collaborazione basata sull’armonia e la cooperazione sia fasullo e addirittura poco efficace. Meglio cercare di volgere a nostro favore la necessità di collaborare con il “nemico”. Questo non significa trasformare il tutto in un teatro di guerra permanente bensì mettere in pratica quella regola aurea che dovrebbe essere riportata in ogni policy aziendale: il senso e il valore del rispetto. La “regola delle tre R”, Rispetto per se stessi, Rispetto per gli altri, Responsabilità per le proprie azioni, è da me sottolineata in occasione di team building, riunioni aziendali, incontri di business coaching, confronti associativi. E come possiamo collaborare in modo costruttivo con chi preferiremmo evitare? Dobbiamo imparare a essere elastici, contenere le divergenze a livello civile, essere meno permalosi e trovare un accordo che soddisfi le parti. La collaborazione tradizionale, spiega Kahane, esiste solo in ambiti semplici dove abbiamo il controllo completo del progetto, dell’obiettivo e del ruolo da svolgere. In strutture complesse, quando questo è impossibile, è meglio essere elastici accettando di collaborare anche senza controllo, andando avanti in modo auto-adattivo, aperti a modificare il nostro percorso senza timore del conflitto e senza farne un caso di orgoglio personale. Ci sono delle trappole emotive da evitare, e tutto sarà più semplice. Come credere di avere sempre ragione a discapito dell’interlocutore, alimentando così un’immagine di noi stessi poco realistica. Oppure temere in modo esagerato il conflitto, diventando evitanti e rinunciatari. Imparare a litigare in modo franco, senza portare attacchi personali, è una condizione a cui dobbiamo abituarci in situazioni complesse e poco controllate, sviluppando le nostre capacità di ascolto e di dialettica. “Non possiamo conoscere il futuro, ma possiamo influenzarlo”, dice Kahane. Il modo in cui affrontiamo i conflitti che la quotidianità inevitabilmente ci presenta ha una grande influenza sulla qualità della nostra vita e, se vogliamo, ci consente di costruire un ecosistema relazionale salubre e creativo di sicura soddisfazione.
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