La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah.
“C’è un momento in cui una persona di novant’anni, come sono io adesso, dice: Basta, ho bisogno di riposarmi, non voglio più ricordare, non voglio più soffrire, Non voglio più”.
È così che inizia l’ultima testimonianza pubblica della Senatrice a vita Liliana Segre, pubblicata in un piccolo ma densissimo libro: “Ho scelto la Vita”. Sessantaquattro pagine che raccolgono la sua testimonianza a Rondine, un piccolo paese in provincia di Arezzo dove la Senatrice è andata, il 9 ottobre scorso, inchiodando in un silenzio assoluto una platea di persone per oltre un’ora. Liliana Segre ha scelto Rondine per un motivo: è lì che è nata l’associazione che ospita studenti di tutti i Paesi del mondo, soprattutto quelli in guerra. Ed è in quel microcosmo di culture tanto diverse ma non lontane, che Liliana Segre ha voluto portare la sua storia perché il mondo non dimentichi. E come superstite della Shoah, si è rivolta ai giovani di questo piccolo posto come fossero stati tutti i giovani del mondo. Per non dimenticare il dramma della persecuzione. E per farla conoscere, a chi non la conosce. Nominata senatrice a vita il 19 gennaio 2018 dal Presidente Mattarella, la signora Segre ha speso molto tempo della sua vita per testimoniare e non fare dimenticare. Sebbene sia stata anche di recente minacciata ed insultata, ha continuato a testimoniare gli orrori di una guerra contro uomini e donne senza colpe. Serve a noi, ci spiega, e serve ad un Paese che non può restare sordo e muto davanti a tutto quell’odio. Perché se lo fa, non si salva. Non a caso, il Memoriale dedicato alla Shoah ed inaugurato nel 2013 è stato costruito su quella che era allora la Stazione Centrale di Milano, al binario 21, da dove partirono i nostri connazionali, fra il 1943 ed il 1945, per andare a morire in nome della follia nazista e di coloro che non seppero dire di no. Sui muri del Memoriale, grazie a lei, a Liliana Segre, oggi leggiamo una scritta enorme, indelebile: Indifferenza.
È stato il sentimento che l’ha perseguitata tutta la vita, anche dopo essersi salvata. A quella sua Milano, che la vide andare via sui camion nazisti, il 30 gennaio 1944, le mani unite a suo padre, e che rimase a guardare dai balconi, in silenzio, mentre i nazisti portavano via decine di bambini, uomini e donne, Liliana si riallaccia per portarci tutti sulla strada della memoria e per farci capire, fino in fondo, che dopo la violenza non può esistere nessuna salvezza: “A calci e pugni attraversammo Milano: deserta, indifferente, con le finestre chiuse. Erano vie che conoscevo, vidi la mia casa in lontananza. Arrivati alla Stazione Centrale, lì, dal binario 21, fummo stipati con estrema violenza sui carri bestia- me. Non c’erano solo i nazisti. Ad aiutarli an- che zelanti fascisti, erano i nostri vicini di casa, erano persone che non ebbero pietà”. Tentarono la fuga, in Svizzera, Alberto Segre e la piccola Liliana, prima di quel 30 gennaio del ‘44. Ma furono rimandati indietro. Prigionieri nel carcere di Varese, poi a Como, ed infine a San Vittore, a Milano, da dove furono deportati ad Auschwitz. Nel libro, i dettagli non sono molti, giusta- mente, ma lo spessore del suo racconto è tale da farci sentire, come uno schiaffo, quella follia allucinante che fu l’esperienza del lager e che la condusse alla “trasformazione nell’altra se stessa” di cui parla e scrive: “Alla Union trasportavo pezzi di ferro con cui le operaie facevano bossoli per le mitragliatrici. Ero un’inserviente e la mia referente, diciamo così, l’operaia da cui dovevo andare avanti e indietro. (…) Un giorno un macchinario che tranciava il ferro le tagliò le falangi di due dita di una mano. E quando fummo chiamate alla selezione, lei, terrorizzata, trovò uno straccio con cui coprì le due dita, ma se si è nudi lo straccio si nota. Sentii che la fermavano, che la scrivania prendeva nota del suo numero sul braccio: non serviva più, andava al gas. E io, che ero appena passata e che tutti i giorni lavoravo con lei, non mi voltai. Io non mi voltai. (…) Non accettavo il distacco. Così ero diventata. (…) Perché il suo andare al gas e non diventare vecchia, non diventare madre, non diventare nonna, non diventare quella donna che sarebbe stata, è legato al mio essere, al mio avere perso ogni dignità, ogni senso di quella persona che io speravo di diventare”. L’isolamento emotivo, l’egoismo e l’annullamento di qualunque sentimento di pietà erano diventate le ancore alle quali Liliana Segre si dovette aggrappare. Nessuna condivisione con le compagne di cella. Nessuna. Era una questione di sopravvivenza e non so- lo fisica, ma emotiva. Suo padre non c’era più, così come i nonni. Ad Auschwitz separavano subito gli uomini dalle donne e così i vecchi ed i bambini. Creare una relazione umana con un’altra donna, anche solo attraverso un gesto caloroso, significava potersi perdere, distrarsi, dovere affrontare un altro distacco. Perché tutte, prima o poi, andava- no al gas. La paura per un comando in te- desco non capito, per un qualunque errore, facevano sì che lei diventasse a sua volta disumana e diversa dalla Liliana “di prima”. Nel 1945, un anno dopo la deportazione ad Auschwitz, si sentivano gli aerei sorvolare il lager. Dissero che l’armata russa cominciava faticosamente ad avvicinarsi ai confini. Iniziava un altro lungo e faticosissimo capitolo della sua vita e di altri: la marcia della morte, che la signora Segre ha sempre raccontato in questi anni: “(…) camminare, una gamba dietro l’altra, con i piedi piagati, men- tre chi cadeva veniva fucilato alla testa”.
Gli ebrei che fecero quella marcia furono pochi. Ancora meno arrivarono vivi. Furono spostati in diversi lager, quando arrivarono nel nord della Germania, nell’inverno del 1945. L’ultimo lager fu quello di Malchow. Non la- voravano e non mangiavano. A primavera la guerra stava finendo e grazie a dei giovani contadini francesi, Liliana Segre e le altre sopravvissute seppero che di lì a breve, ce l’avrebbero fatta.
Molti uomini e molte donne morirono. Nei campi e dopo la liberazione, di malattia. Liliana racconta la sua sopravvivenza come un miracolo, o un caso. Non si concentra sul- la sua salvezza, però. Ma su come lei era di- ventata, su come i suoi aguzzini l’avevano trasformata. La sua testimonianza non mira solo alla memoria di una tragedia, e alla riflessione, fondamentale, che la crudeltà e l’indifferenza non portano a nessuna vittoria, ma si concentra sull’aspetto più intimo del suo essere prigioniera e schiava, così intimo e indomito da averla trasformata in un esse- re diverso da se stessa. Prima irriconoscibile, poi libera: “Allora successe un’altra cosa incredibile. Era il 1° maggio. Mi camminava vicino il comandante dell’ultimo campo. Era un uomo crudele, aveva un nerbo di bue che portava con sé e con cui distribuiva nerbate a noi che eravamo quasi insensibili. (…). Buttò via la divisa. (…) Buttò per terra la pistola. E io, che non ero quella che sono oggi, che mi ero nutrita di odio e di vendetta, che lasciando la mano sacra di mio padre, giorno dopo giorno ero diventata un’altra, un essere insensibile, quello che loro volevano che io diventassi, pensai: adesso la raccolgo e gli sparo. (…). Fu un attimo. Un attimo importantissimo, decisivo nella mia vita. Capii che mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere qualcuno. Capii che io non ero come il mio assassino.(…) Sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono adesso”.
Difficile pensare che tutti noi avremmo avuto la sua forza, il suo temperamento, e la sua capacità di restare un individuo libero. Doveroso ricordare e riflettere sui tanti episodi di razzismo, iniquità sociale, e incapacità di accettazione altrui, che si susseguono quotidianamente, nonostante i drammi che la Storia ci ha consegnato.
Un invito meraviglioso alla Vita che la Segre ci suggerisce. In modo asciutto. Concreto.