L’elettrico e il dilemma della sostenibilità. Il paradosso della liberazione dai combustibili fossili


Mentre in molti ci interroghiamo sul futuro dell’automobile elettrica, se questa sia o meno la soluzione ai problemi ambientali e di sostenibilità, governi e produttori di tutto il mondo si interrogano invece sulle capacità di far fronte ad una domanda che si sta sviluppando a ritmi sempre più intensi. Infatti, secondo il rapporto 2021 della IEA, l’Agenzia Internazionale dell’Energia, il mondo non sta raccogliendo un sufficiente quantitativo di metalli necessari per assicurare il numero di batterie elettriche indispensabili per garantire un futuro “pulito”. La domanda di metalli per i soli veicoli elettrici potrebbe aumentare di 30 volte da qui al 2040 e se le catene di rifornimento non saranno in grado di soddisfare questa crescita esponenziale, ci troveremo nel giro di meno di due decenni in una crisi di forniture senza precedenti. Dopo decenni di estrazioni, le miniere esistenti – anche quelle meno sfruttate – si stanno riducendo, ed i costi di estrazione stanno invece lievitando. Inoltre, in più di un caso, come avviene per il cobalto – che si trova soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo – le ONG che operano in loco hanno sollevato forti critiche sui costanti abusi in tema di ambiente e di diritti umani violati. Così l’idea che la soluzione al problema si trovi a portata di mano, ha fatto notizia, e non solo tra gli addetti ai lavori. Si è infatti scoperto che, sparpagliati sul fondo dell’Oceano Pacifico, si trovano migliaia di miliardi di rozze pepite nere, che potrebbero scongiurare la crisi e saziare la fame di metalli rari. Simili a pezzi di carbone come quelli che si usavano nelle stufe, questi blocchetti, che si sono formati tramite un complesso processo durato milioni di anni dalla decomposizione di scheletri di pesci, denti di squali e minerali provenienti dalle acque marine, sono ricchi di nickel, cobalto e manganese. Coprono un’area di circa 4 milioni e mezzo di chilometri quadrati di fondo marino, racchiuso tra le Isole Hawaii e la costa del Messico, un’area conosciuta dai biologi marini come la Zona Clarion-Clipperton (CCZ), dove si stima vi siano abbastanza metalli rari per fornire quasi 5 miliardi di veicoli elettrici, cioè più del doppio del numero delle auto attualmente in circolazione nel mondo. I più ottimisti li chiamano semplicemente “batterie rocciose” e ritengono che li si possa raccogliere con estrema facilità, né più né meno come fossero palline lasciate incustodite su di un enorme campo da golf sommerso. Ma gli ecologisti affermano invece che la loro raccolta potrebbe innescare una cascata di effetti addirittura più pericolosa della pur preoccupante traiettoria assunta dal cambiamento climatico. Gli oceani, fanno notare, sono un ecosistema che assorbe da solo fino ad un quarto delle emissioni di anidride carbonica ogni anno. Se la semplice raccolta di questa insperata ricchezza da sola, potrebbe anche non essere così deleteria, la natura stessa degli oceani, costantemente attraversati come sono dalle correnti marine, finirebbe per avere conseguenze non prevedibili sull’intero ecosistema planetario, anche ben lontano dal luogo di origine dei fenomeni. Gli ecologisti affermano che queste pepite sono parte di un bioma grande come la foresta amazzonica e che sono essi stessi un ecosistema, che ospita vita e che usarle per fare batterie elettriche sarebbe come voler fare cemento distruggendo la barriera corallina. L’estrazione dei minerali dal mare non è attualmente permessa in acque internazionali, come sono quelle oceaniche, anche se il mare è già sottoposto al rischio climatico, all’eccesso di pesca commerciale e anche all’invasione dei rifiuti di plastica. È evidente che ogni attività di estrazione, in terraferma come in mare, ha conseguenze sull’ambiente. Ed è anche evidente che il riciclo delle batterie esauste potrebbe essere una soluzione sicuramente più condivisibile, ma probabilmente non sufficiente per i bisogni futuri di energia pulita. D’altronde, nessuno degli scienziati che da anni studiano la materia – e la zona CCZ in particolare – è stato in grado di pronunciarsi sulle conseguenze dell’estrazione. Ecco allora che ancora una volta si ripropone l’annosa questione: quante e quali di queste conseguenze siamo disponibili ad accettare? E a quale prezzo? A noi a scelta ma ai posteri l’ardua sentenza.


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