In memoria di Eugenio Scalfari


Scalfari ha lasciato orfani un po’ tutti i giornalisti italiani. Se ne è andato lo scorso luglio, a 98 anni, e dopo 70 di professione. Classificarlo come giornalista tout court è riduttivo. Nasce nel 1924 a Civitavecchia e dopo avere scritto per alcune riviste fasciste ed essere stato espulso perché ritenuto un “imboscato”, inizia a scrivere nei primi anni ‘50 per il Mondo, mentre è nel 1955 che fonda l’Espresso con Arrigo Benedetti che resta, forse anche oggi, il primo settimanale d’inchiesta del nostro Paese.

La Repubblica nasce vent’anni dopo, nel 1976, con un tale successo di pubblico che chiuderà in crescita, per molti decenni successivi, sia in termini di tiratura che di apprezzamento, nonostante l’amico Montanelli lo avesse messo in guardia da una scelta, a suo dire, “azzardata”.

Scalfari è un osservatore feroce, critico puntuale ed anche uno dei primi intellettuali che negli anni ‘70 ha aperto una discussione importantissima, e ancor oggi attuale, sulla questione morale per la quale scriverà, nel 1981, un libro-intervista a Enrico Berlinguer, dove l’onorevole spiega come l’azione dei partiti sia troppo spesso una manovra esclusiva e personale che chiude la democrazia in uno stato di soffocazione.

Furono infatti gli scandali di quel decennio che spinsero molti intellettuali, Scalfari fra tutti, ad interrogare la classe dirigente sulla degenerazione della democrazia e la corruzione esplosa con Tangentopoli e con le inchieste di Mani Pulite. Scalfari, nella fattispecie, aveva elogiato l’azione di Berlinguer che si era staccato dalle scelte politiche dell’Unione Sovietica, scagliandosi invece contro alcuni politici, fra cui Craxi, che rappresentava, a suo dire, l’emblema tipo della questione morale.

Nel 1996 lascia la Repubblica, e per molti questa sua assenza ha reso il giornale diverso da quello che era stato con l’impronta iniziale.

Con il romanzo “Il Labirinto”, del 1998, inizia ufficialmente la sua carriera di scrittore. Il romanzo è una porta che si apre su un lungo percorso di riflessione fra i contrasti del cuore e della mente: dalla spiritualità alla ragione, i sentimenti e le battaglie quotidiane di un uomo in perenne “ricerca”. Ma c’è anche lo Scalfari che ha raccontato la mediocrità con “I padroni della città” o con “Alla ricerca della morale perduta” ed un bel pez- zo della storia del nostro giornalismo e del nostro Paese si ritrova nel bellissimo libro “La sera andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» alla «Repubblica»”, nuovamente edito in sua memoria.

D’altronde un personaggio come Scalfari ha raccolto, nel suo oltre mezzo secolo di attività, uomini di politica e uomini di cultura, anche molto diversi da lui. “Assertore dell’etica nella società e del rinnovamento nella vita pubblica – ha affermato il presidente Mattarella durante il suo commiato ai funerali del giornalista in Campidoglio – Scalfari ha sempre costituito un punto di riferimento coinvolgente per generazioni di giornalisti, intellettuali, classe politica ed un amplissimo numero di lettori. Si era magistralmente dedicato ai grandi tempi esistenziali dell’uomo con la consueta efficacia e profondità di riflessione”.

Sebbene fosse un ateo convinto, sostenitore dell’etica ma anche di una sorta di illuminismo moderno, ben prima dell’ultima fase della sua vita ha cominciato ad interrogarsi profondamente sull’aldilà, e dalla intervista memorabile fatta al Pontefice che uscì sul quotidiano la Repubblica, Eugenio Scalfari ne trasse spunto per scrivere “L’uomo che non credeva in Dio” e “Il Dio unico e la società moderna. Incontri con Papa Francesco e il Cardinale Carlo Maria Martini”, sua ultima opera, del 2019.

Colpisce la vivacità del pensiero e la curiosità periodica nel volere navigare in uno degli argomenti per lui più complessi e spinosi: la fede. Non si può non riprendere alcuni stralci della lettera, del 2013, che Papa Francesco scrisse in risposta ad Eugenio Scalfari: “(…) Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile”.

Eugenio Scalfari allacciò un lungo rapporto epistolare e di incontri con il Santo Padre, che visitava a Casa Santa Marta, dove gli confessò spesso la sua ricerca sull’esistenza e il mistero della vita. Così forte fu questa sua richiesta di verità, che Papa Francesco è stato sicuramente l’interlocutore che ha saputo meglio esprimere il suo saluto a

Scalfari: “Si professava non credente – scrive il Pontefice nel suo ultimo e personalissimo saluto al giornalista – seppure negli anni in cui l’ho conosciuto io riflettesse profondamente anche sul senso della fede. Sempre si interrogava sulla presenza di Dio, sulle cose ultime e sulla vita dopo di questa vita.

I nostri colloqui erano piacevoli e intensi, i minuti con lui volavano via veloci scanditi dal confronto sereno delle rispettive opinioni e della condivisione dei nostri pensieri e delle nostre idee, e anche da momenti di allegria.

Parlavamo di fede e laicità, di quotidianità e dei grandi orizzonti dell’umanità del presente e dell’avvenire, del buio che può avvolgere l’uomo e della luce divina che può illuminarne il cammino.

Lo ricordo come un uomo di straordinaria intelligenza e capacità di ascolto, perennemente alla ricerca del senso ultimo degli avvenimenti, sempre desideroso di conoscenza, e di testimonianze che potessero arricchire la comprensione della modernità. Eugenio era un intellettuale aperto alla contemporaneità, coraggioso, trasparente nel raccontare i suoi timori, mai nostalgico del passato glorioso, bensì proiettato in avanti, con un pizzico di disillusione ma anche grandi speranze in un mondo migliore. Ed era entusiasta e innamorato del suo mestiere di giornalista.

Ha lasciato un segno indelebile nella vita di tante persone, e ha tracciato un solco professionale su cui molti suoi collaboratori e successori stanno procedendo.

All’inizio dei nostri scambi di lettere e telefonate, e durante i nostri primi colloqui, mi aveva manifestato il suo stupore per la scelta di chiamarmi Francesco, e aveva voluto capire bene le motivazioni della mia decisione. E poi, lo incuriosiva molto il mio lavoro di pastore della Chiesa universale, e in questo senso ragionava a voce alta e nei suoi articoli sull’impegno profuso dalla Chiesa nel dialogo interreligioso ed ecumenico, sul mistero del Signore, su Dio fonte della pace e sorgente di strade di fraternità concreta tra le persone, le nazioni e i popoli.

Insisteva sul valore decisivo – per le nostre società e per la politica – delle relazioni sincere, proficue e continuative tra credenti e non credenti. Era affascinato da varie questioni teologiche, come il misticismo nella religione cattolica e il brano della Genesi in cui si dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. E dalla composizione e dalle caratteristiche delle popolazioni che abiteranno la casa comune nei prossimi decenni.

Da oggi ancora di più conserverò nel cuore l’amabile e prezioso ricordo delle conversazioni avute con Eugenio, avvenute nel corso di questi anni di pontificato. Prego per lui e per la consolazione di coloro che lo piangono.

E affido la sua anima a Dio, per l’eternità”.