Il mio disco è sul coraggio della paura – Intervista a Cristiano Godano


Il leader dei Marlene Kuntz racconta il suo primo album da solista. Scrittore, autore, attore, ma soprattutto cantante e chitarrista self-made, come lui ama definirsi, Cristiano Godano approda all’esordio in prima persona con “Mi ero perso il cuore”.
Da un trentennio cantante dei Marlene Kuntz, gruppo alternative rock attivo dalla fine degli anni Ottanta e diventato di culto tra gli anni Novanta e i primi Duemila, è l’autore degli oltre cento testi della band. Una capacità di scrittura che si esprime ai massimi livelli in questo album che, non a caso, sta conquistando la critica e il pubblico.

Un disco uscito a giugno e presentato in tutta Italia questa estate con degli showcase tra musica e racconto. Ora c’è in radio “Ho bisogno di te”, una balla- ta intensa con la partecipazione di Vittorio Cosma al pianoforte e delle coriste Valentina Santini e Alice Frigerio. Ed è in programma un tour, che causa Covid ha un grande punto interrogativo sulla data di partenza.

Così ne approfittiamo per due chiacchere al telefono, per farci raccontare la sua prima volta da solista e non solo.

Questa esperienza capita spesso a tanti frontman di una band. Nel tuo caso cosa ti ha spinto?

Come dici tu è abbastanza consueto per un songwriter prendere prima o poi una piega più personale. Stare in un gruppo ha un qualcosa di molto democratico, ma se c’è anche solo una piccola aspirazione di fare delle canzoni solo tue, è bene far in modo che questa si concretizzi.

Hai detto che questo disco è “l’emanazione della parte più genuina” che hai nel suonare. Cosa intendevi?

Fammi dire che più genuina non significa che i Marlene non lo siano, credo di aver voluto affermare che questa musica arriva semplicemente più direttamente da me. Sapevo di voler raccontare il mio sentimento di timore per le pieghe che sta prendendo il mondo, dai cambiamenti climatici alle derive sovraniste che mi impauriscono considerando che io non ho mai voluto né mi sono mai sogna- to di prevaricare sul gruppo perché sentivo una canzone in un certo modo. Se porto un certo songwriting in sala prove con i Marlene so che andrà in una direzione che potrebbe non esattamente essere quello che avevo pensato per lei. Se la con- dividi con il gruppo sai che prenderà un’altra forma. Questo disco invece suona esatta- mente come immaginavano nei miei sogni.

Ci hai lavorato tanto?

Ci ho lavorato il giusto. Da quando ho capi- to che avrebbe potuto funzionare saranno passati un paio d’anni, ma le canzoni ho iniziato a scriverle tre anni e mezzo fa, in casa, da solo, strimpellando la chitarra con l’idea di tenerle per me. Era un disco sedimenta- to nella mia testa da tre o quattro anni e ho lasciato maturare senza nessuna pressione. Quando ho deciso di farlo uscire potevo scegliere tra una cinquantina di spunti e allora mi sono preso tutto il tempo che mi serviva per fare ogni cosa con calma.

La chiave del disco mi sembra sia la vulnerabilità che ci accomuna. Hai scritto un album che si può definire una collezione di canzoni che raccontano i demoni della mente.

Sì è un disco che ha il coraggio della paura ed esibisce questa poetica vulnerabilità. Sono canzoni che non temono di ostentare fragilità e debolezze. Credo che un animo sensibile possa sentirsi accolto da questo ascolto.

Adoro il brano “Padre e figlio” eppure confesso di non aver capito chi parla, forse perché potrebbe valere per entrambi…

Infatti va ascoltato con il brano che segue “Figlio e padre” e non è un caso che ci sia un ordine invertito degli addendi. Ognuno può pensare al perché se vuole. Non è detto che il figlio e il padre siano la stessa persona. Sono due punti di vista differenti perché i soggetti non sono gli stessi. Il fatto che sia padre-figlio prima e figlio-padre dopo è una piccola indicazione, per chi ha voglia, di provare a capire come mai.

Cos’ha detto tuo figlio di questo disco? (Anche Enrico che oggi ha 20 anni, fa musica, ndr).

Non mi piace chiedere impressioni sul mio lavoro per cui non so, però, sono sicuro che oggi lui ha molto rispetto per quello che faccio, anche se non ascolta né rock, né folk. Come la maggior parte dei suoi coetanei ascolta rap, non credo più trap.

A proposito di giovani e musica insegni sempre all’Università?

Tengo una due giorni di lezioni e workshop in ambito musicale e poetico in un master alla Cattolica di Milano.

Come stai vivendo questo momento?

Come molti sono un po’ impaurito da questa recrudescenza del virus, personalmente ho i miei timori a uscire in giro, ogni persona che incontri potrebbe essere un positivo e potrebbe trasmetterlo quindi trovo molto sensati e ragionevoli gli inviti a uscire il meno possibile e a mettere la mascherina. E poi come musicista sono coinvolto perché ci sarebbe un mio tour che dovrebbe partire a tre giorni dalla fine delle misure introdotte con il DPCM di fine ottobre. In questo mo- mento posso sperare di poter tornare su un palco ma sono consapevole che ogni giorno che passa le notizie sono poco rassicuranti.

Gli indici sull’andamento della pandemia, ahimé, non sono incoraggianti…

Ma sai io penso che la situazione dipenda molto dal senso civico delle persone. Molti dimostrano di non averlo, forse anche un po’ perché traviati da una narrazione sbagliata che dubita del virus, si hanno atteggiamenti diffidenti, mi sembra una situazione da incubo. Se tutti usassero il buon senso si potrebbe davvero sperare.

Il tempo trascorso a casa durante il lockdown ci ha dato l’opportunità di riflettere, anche su alcuni valori, a partire direi proprio dalla libertà. Che cosa significa per te essere liberi?

È un po’ il mantra che si diffonde. Anche il Presidente Mattarella ne ha parlato recente- mente. La libertà non è fare quello che si vuole ma bisogna sempre tenere in considerazione anche l’esistenza degli altri. È evidente che non si può mai sconfinare ed invadere la sfera di chiunque ci graviti intorno. Fino ad ora non sono mai arrivato a pensare che mi sia stata tolta la libertà anche con i restringi- menti imposti, perché tutto quello che accade mi sembra talmente ragionevole così come il consiglio di non uscire, soprattutto in questi giorni in cui il virus sta moltiplicandosi. Sulla mascherina posso dire che se si pensa all’andare in macchina, abbiamo accettato tutti di mettere la cintura senza grosse difficoltà e non credo che nessuno pensi all’obbligo della cintura come ad un’imposizione di un qualche regime. Si sentono molte stupidaggini fastidiose che creano una corrente di opinione che poi degenera nelle tensioni che stiamo vedendo nelle manifestazioni di protesta. È comprensibile la rabbia delle persone ma è come quando si ha una malattia e ci si de- ve curare, la rabbia non aiuta mentre è bene comportarsi come ci dice di fare il medico. L’unico modo per uscirne è stare ad ascolta- re quello che ci viene consigliato.

Che ci dici delle tue dirette social tra musica e poesia?

Nella pandemia è venuta fuori la parte più vulnerabile di tutti noi, e l’arte ha rappresentato un’occasione di approdo, di consolazione, di conforto. Ho provato a fare qualcosa di bello per il mio pubblico e, insperabilmente, pare anche per un’altra serie di persone. Proprio come il mood del mio disco, che non tenta di rassicurare in maniera falsa ma empatica, ma che spero possa essere un bel gesto per chi mi ascolta.

La tua profondità nella scrittura si evinceva già nei racconti “I vivi”, protagonisti di reading portati in tour in tutta Italia. Esperienza di scrittura che hai ripetuto un anno fa con il racconto biografico “Nuotando nell’aria”.

Quando ho scritto questo libro non volevo fare un’autobiografia bensì un racconto di viaggio che ripercorre il backstage del processo creativo dei primi tre album della band. Ci sono 35 capitoli che sono le 35 canzoni dei tre dischi con i Marlene Kuntz. E in questo cammino, nato per ripercorrere il ricordo di quando cercavo di scriverne i testi, 20 ma anche 25 anni fa, è successo che si sia dato spazio anche ad aneddoti personali. La mia è un’operazione di memoria, in modo artistico e creativo. Anche perché se avessi scritto un’autobiografia a 50 anni mi sarei sentito un vecchietto.

Adesso va di moda il film documentario a fine carriera, penso a Paolo Conte e a sportivi come Francesco Totti.

Sono sufficientemente dotato della mode- stia che serve per sapere molto bene la differenza che c’è tra una potenza conclamata nel mondo come Paolo Conte e una dimensione solo italiana di un rocchettaro come me e poi (ridendo) mi mancano ancora quasi trent’anni di attività.

Giusto chiudere così, con un sorriso e una speranza. Ci salutiamo ed io ne approfitto per andare a riascoltare il suo disco.