La vera partita per l’Italia si gioca sulla capacità di valorizzare il potenziale dei giovani. È tempo di scelte coraggiose. Con meno di 7 neonati e più di 12 decessi per mille abitanti, la natalità nel nostro paese non è mai stata così bassa. L’Italia di oggi sembra una società a ridotto tasso di relazioni interpersonali e ad alto tasso di egocentrismo, una società che invecchia e che invoglia i giovani ad andarsene. Nella sua intervista al Corriere della Sera, il presidente del Censis Giuseppe De Rita ha parlato dell’Italia come di un “paese senza un’idea di futuro”, esortando tutti noi ad uscire da un “galleggiamento che si prolunga da tempo”. Tanto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, gli indicatori demografici dell’Istat relativi al 2022 segnalano come in Italia le nascite siano precipitate sotto la soglia delle 400mila unità, a 393mila. Non è stato un crollo improvviso perché il calo era iniziato negli anni ‘70, ma oggi sta diventando gravemente strutturale. Sarebbe probabilmente sbagliato attribuire la causa della denatalità a un solo fattore. E la scelta stessa di avere figli o meno è innanzitutto una scelta personale. Fa impressione però il dato relativo al divario tra il numero di figli desiderato e quello effettivamente realizzato. Di certo, la mancanza del lavoro, di garanzie, di politiche a sostegno della famiglia e della maternità pesano sulle scelte dei giovani. Come spiega il demografo Alessandro Rosina, l’Italia presenta uno dei gap più ampi, con il primo valore vicino a due e il secondo pari a 1,25 e aggiunge: “Nessun paese maturo avanzato ha visto ridursi tale divario senza mettere in campo misure solide e strumenti efficaci di sostegno alla natalità. Vale, piuttosto, il contrario: il numero desiderato può ridursi nei contesti in cui la carenza di politiche e di attenzione pubblica porta a consolidare il messaggio che la nascita di un figlio non è considerata un valore sociale ma solo un costo e una complicazione a carico dei genitori. È quello che rischia il nostro Paese”. La bassa natalità non sembra causata quindi solo da un minore desiderio di filiazione da parte dei giovani italiani rispetto ai loro coetanei di altri paesi. È piuttosto dovuta alla troppo diffusa incertezza rispetto al lavoro, a redditi da lavoro spesso troppo bassi e senza ragionevoli garanzie di continuità, alle difficoltà ad accedere all’abitazione in un mercato della casa stretto tra l’ipertrofia della proprietà e affitti spesso costosissimi. In effetti comprare una casa per i giovani è sempre più difficile. Una recente inchiesta dell’Espresso ha svelato però che la vita è dura anche per i giovani in cerca di case in affitto: prezzi e appartamenti accessibili sono sempre più un miraggio. I giovani per vivere in affitto devono spesso pagare un canone che non è commisurato al loro reddito. L’offerta è ormai sfociata nella speculazione e si arriva (tra l’altro sempre più spesso) a casi limite, con un incremento del 3,5% dei canoni solo nell’ultimo anno. A questo si aggiunga che, rispetto ai loro coetanei europei, i giovani italiani (tra i 15 e i 29 anni) sono tra quelli con il più alto rischio di povertà, minore tasso di occupazione, minore reddito, maggiore percentuale di soggetti che non studiano né lavorano (Neet), di cui un milione e settecentomila sono donne. A questo si aggiunga che, com’era prevedibile, la pandemia e poi la guerra hanno provocato un aumento della depressione, dell’ansia e del disagio mentale nei nostri giovani, in particolare tra i giovanissimi: sono i tratti distintivi di quella che alcuni esperti hanno ribattezzato la “generazione Covid”. Tornano così alla mente le parole che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciò pochi mesi fa nel suo discorso di fine anno: “Facciamo sì che il futuro delle giovani generazioni non sia soltanto quel che resta del presente ma sia il frutto di un esercizio di coscienza da parte nostra”.
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