Incontro con lo chef di Verbania che ha conquistato tre stelle Michelin. Le prime due per il Piccolo Lago. La terza ottenuta dal Piano 35 in piena pandemia.
Tre stelle Michelin e un grande amore per il ‘suo’ lago, quello di Mergozzo. Marco Sacco, chef patron del Piccolo Lago di Verbania, è una delle anime creative dell’alta cucina italiana. Nella sua cucina valorizza i prodotti della Val d’Ossola, come il Bettelmatt, formaggio d’alpeggio dal gusto deciso e il pesce di lago. Molto legato al territorio in cui vive, ha fondato l’Associazione di Lago e di Fiume per proteggere le acque interne.
Entriamo virtualmente nella sua cucina e la prima domanda è d’obbligo:
cosa sta facendo di buono?
Con i miei ragazzi stiamo cambiando alcuni piatti del percorso gastronomico. Fare i piatti è un momento fantastico e tra poco si accendono i fornelli.
Lei è stato un esempio di come ci si può rigenerare nonostante la pandemia. In un periodo che, senza esagerazioni si può definire tragico, è successo di tutto: il paradosso vuole che lei iniziasse la gestione al Piano 35 nel grattacielo Intesa Sanpaolo a Torino, l’apertura di Castellana Restaurant ad Hong Kong e in questo frangente è arrivato il Covid. Come ha reagito?
Non è stato facile per niente. Non eravamo in un momento di consolidamento come quando ci occupavamo solo del Piccolo Lago ma ci trovavamo in ballo con l’internazionalizzazione del brand in Cina e con lo sforzo e l’impegno che richiede la gestione del ristorante nel grattacielo. Non essendo un grande colosso abbiamo messo in campo molta forza umana e di famiglia, oltre ad un immenso sforzo imprenditoriale e il contraccolpo a livello mentale non è stato da poco. Dopo il primo lockdown in estate siamo ripartiti, poi in inverno altre chiusure ma è arrivata anche la notizia della stella Michelin per Piano 35: nell’anno della pandemia in cui i ristoranti nel mondo erano tutti in difficoltà noi abbiamo ottenuto questa soddisfazione che ci ha dato la forza di ripartire.
E siete ripartiti alla grande con novità originali come il giardino trasformato in un bistrot e l’idea del box per il pic nic sul lago.
Stando a casa e non essendo ‘sul fronte’, perché come si dice anche la cucina è un po’ come un campo di battaglia, ecco non avere il fucile puntato che offusca la mente, ci ha permesso di liberare la fantasia spesso soffocata dalla quotidianità della produzione e dallo stress del continuo confrontarsi su business plan e fatturati. Senza tutto questo si
diventa più creativi e, così, al Piccolo Lago abbiamo preparato dei piatti che prima non avremmo mai pensato di fare. Abbiamo dato sfogo alla spontaneità pur ragionando molto ed è stato molto positivo.
Nel 2019 avete festeggiato i 45 anni del Piccolo Lago. Un grande amore…
Nel Piccolo Lago di oggi si respira una nuova consapevolezza: viviamo la nostra professionalità con leggerezza. Una convinzione che prima non avevo. Dopo tutto quello che abbiamo passato viviamo il lavoro con il giusto distacco ma con la voglia di andare al cuore del prodotto, della materia. Dopo la pandemia abbiamo acquisito un inconsueto coraggio
di esprimerci che prima tenevamo forse nascosto. Non saprei dare una spiegazione a quanto è successo ma abbiamo riscoperto una nuova intraprendenza.
Ci racconta qualcosa di lei da giovanissimo? Figlio d’arte, suo padre cosa le consigliava più spesso?
Mio padre era un folle. Quando gli dissi che volevo anche io diventare cuoco e che mi sarebbe piaciuto diventare uno chef stellato mi ha chiesto se conoscevo la fame. Mi spiegò che chi non sa cosa significa avere fame non sarebbe mai potuto diventare un bravo cuoco. Decise quindi di mandarmi in Africa per tre mesi. Facevo trenta chilometri per prendere l’acqua e cucinavo per la tribù locale la polenta bianca che arrivava dall’America. Al mio ritorno in Italia gli dissi che avevo capito che avere fame equivaleva ad essere rispettosi delle materie prime e di tutto il cibo.
Adesso sono io che cerco di trasmettere questo ai miei ragazzi: il messaggio è capire cosa c’è dietro un frigorifero pieno, chiedo loro di andare oltre e ragionare su questo.
Anche lo sport sul lago è stata una sua grande passione giovanile.
Avevo quattordici anni quando diventai imprenditore del surf, anche qui grazie a mio padre che mi fece avere trenta tavole da noleggiare. Così presi il brevetto da istruttore e finii in nazionale Juniores dove vinsi anche gare mondiali. La mia vita è stata un’altalena di stravaganze e di confronti con un padre, sempre molto condiscendente verso le mie forti ambizioni. Lui aveva le stesse attenzioni anche per gli altri giovani che come me lavoravano nella sua cucina. Ci teneva che tutti realizzassero i propri sogni: è così che è stato possibile il cambio generazionale nel nostro ristorante.
La sua formazione è seguita poi in Francia. Ho letto che durante la sua prima occupazione le facevano aprire le uova per ore e ore. Che ricordo ha di quegli anni?
Passavo giorni interi ad aprire uova e alla fine lo chef mi ha regalato un coppa uovo dicendomi: “Tu ragazzo italiano hai tenacia!”.
Quel coppa uovo è diventato un simbolo della grande cultura gastronomica francese che mi ha aperto la mente ed è stato anche l’attrezzo che ha ispirato la mia carbonara au coque, uno dei piatti portabandiera del nostro menù.
La cucina è un’arte, dove trae l’ispirazione per i suoi piatti?
Da quello che osservo e dal luogo in cui vivo. In questo momento sto guardando il lago e nelle ultime ore l’acqua è salita di 60 cm e i pesci stanno entrando in quel tratto di terra alluvionata e vedono l’erba sotto e capiscono il nostro mondo. A me interessa capire il mondo dei pesci. Questo scambio è alla base del mio voler riproporre quello che vedo in natura
nei miei piatti.
I piatti migliori – la letteratura ci insegna – nascono dal caso e dall’improvvisazione e dallo studio, talvolta anche da un errore, ma è davvero così?
Assolutamente sì, è una questione di equilibri. A volte si lavora su un prodotto senza riuscire a dare quella marcia in avanti, poi succede che quel prodotto rimane ‘parcheggiato’ lì anche per un po’ di mesi e alla fine quello che doveva uscire era il prodotto di mesi prima.
Sensazioni che sembrano positive sono invece negative e viceversa. Lo sforzo mentale per arrivare al risultato di un piatto non è per forza da costruire, può concretizzarsi oppure no, indipendentemente dalla tecnica. Talvolta è quasi un gioco di tempi e consistenze e, quando queste ultime non ci sono, è meglio lasciar stare perché non è quello il momento giusto.
Ogni anno con la sua Associazione organizzate eventi a Verbania e questa volta la formula sarà diffusa con incontri fino ad ottobre. Perché difendere i pesci da lago?
Il mio pensiero è che se un territorio ti ha portato al successo, qualcosa a questo territorio devi restituire. Il mio dare di oggi è analizzare da dove siamo partiti per programmarne il futuro. Quest’anno abbiamo pensato di sviluppare non il grande evento, perché non me la sento di avere 1500 persone tutte insieme, ma abbiamo programmato diverse giornate. Avvicinare il pubblico al lago e al fiume per degustare pesci di acqua dolce funziona anche con i miei nipoti: li porto a vedere i pesci in bacini piccoli, da vicino, e hanno subito voglia di assaggiarli!
Una nuova frontiera del turismo è lo spazio, una dimensione così opposta alla sua.
Proprio così: non è che la terra non ci vuole più, anzi abbiamo ancora così tanto da vedere qui! Siamo in tanti, me compreso, ad aver girato il mondo senza conoscere l’Italia.
Tre ingredienti irrinunciabili nella sua cucina, e nella sua vita.
Riso, formaggio e pesce d’acqua dolce. Nella vita la libertà, il contatto con la natura e mia moglie. Stare con lei è fondamentale, senza di lei non conterei nulla.