Matteo Baronetto: in cucina, e non solo, diamo valore alla sensibilità



Il ristorante Del Cambio non poteva avere uno chef che meglio lo rappresentasse. Questo luogo così ricco di storia e di tradizioni sabaude viene infatti raccontato attraverso le proposte di un cuoco piemontese che abbina il passato con sorprendenti intuizioni creative. La sua ambizione? Creare, anche ai fornelli, qualcosa che duri nel tempo.

Originario di Giaveno, alle porte di Torino, matura le prime esperienze professionali presso La Betulla di San Bernardino di Trana (TO). Approda poi alla corte di Marchesi all’Albereta di Erbusco dove conosce Carlo Cracco che segue prima al ristorante Le Clivie di Piobesi d’Alba, poi a Milano al Cracco-Peck e infine al Ristorante Cracco del quale negli ultimi anni ha firmato il menù. Il suo rientro a Torino, nel 2014, è legato alla riapertura del celebre ristorante Del Cambio del quale è chef e dove aveva lavorato come stagista. Questo elegante locale del 1757 amato da Cavour è incastonato al numero 2 della centralissima piazza Carignano unisce i raffinati decori e gli arredi ottocenteschi con le opere di Martino Gamper, Michelangelo Pistoletto, Izhar Patkin. Per un’esperienza che non riguarda solo il gusto, ma tutti i sensi. Il ristorante, insignito della prima Stella Michelin, vanta inoltre uno spazio di lavoro all’avanguardia ideato dallo stesso Baronetto con l’azienda francese Matinox che è perfetto per la cucina contemporanea proposta agli ospiti con eleganza. Parallelamente ai fornelli, che sa gestire con maestria e creatività, lo chef è anche autore di due libri.

Matteo Baronetto e l’editoria: cosa sono le “Iconiche Similitudini”?
Come ha sottolineato parliamo di editoria in generale. Infatti, non sono uno scrittore e ho molto rispetto delle competenze altrui. Ho pubblicato dei pensieri che parlano del mio lavoro. Per me era importante fissare un momento che spiegasse ciò che stavo svolgendo in cucina. Sono partito da un concetto filosofico secondo il quale i simili si attraggono e trovano delle analogie. Negli anni, con la mia professione, ho capito che ci sono delle affinità elettive sia tra alcuni elementi non cucinati, ad esempio tra il cece e le nocciole verdi, sia tra elementi cucinati. Questo perché, magari, un tempo erano geograficamente vicini e facevano parte della stessa famiglia e con il cambiamento climatico si sono separati. Il testo è introdotto da un dialogo immaginario tra me e un caro amico che purtroppo è scomparso nel 2017: Bob Noto. Ho scelto di far stampare una tiratura limitata e numerata di “Iconiche Similitudini” perché mi piace che questo volume venga considerato un oggetto prezioso destinato a collezionisti che amano la cucina, ma non solo. Inoltre, ho deciso di non inserire delle grammature, ma di presentare il piatto nella sua essenza così come ho preferito non usare la fotografia, ma il disegno che per me rappresenta una forma di arte che non passa mai di moda.

Il suo primo volume è stato “Cucina piemontese contemporanea”. Il legame con il territorio quale ruolo ha nelle sue creazioni?
Ho sempre desiderato pubblicare un libro, ma mai avrei creduto che avrebbe raccontato la cucina della mia regione d’origine. L’ho scritto perché ho notato che mancava un testo che potesse collocarsi in un momento storico preciso. Il ristorante Del Cambio è l’emblema della torinesità e dell’universo sabaudo. Nelle sue sale si sono avvicendati principi e principesse, artisti e capitani d’industria, liberali e conservatori, maestri della letteratura e della musica. Per realizzare il volume ho studiato alcuni testi storici di Vialardi che fu cuoco alla Casa Reale oltre che il primo a scrivere un ricettario sulla cucina borghese dove per borghese intendo non di campagna. In città, infatti, si snelliva il modo goffo di preparare le pietanze tipico della campagna. Nelle pagine ci sono delle fotografie di piatti anche usati e diversi tra loro che possono ricondurre alla tradizione della tavola.

Prossimamente la leggeremo ancora?
In realtà ho realizzato “Pensieri e vapori” che si trova all’Archivio Tipografico di Torino. L’opera si compone di 23 pagine per un totale di 140 esemplari. Si tratta di idee e suggestioni che annoto e che sono accompagnate da tre ricette discorsive e da un disegno realizzato da me perché, deve sapere, sono appassionato anche di arte contemporanea. La copertina è stata realizzata con la carta del macellaio. In libreria non si trova, lo vendo io e lo ho anche autofinanziato.

Matteo Baronetto chef: ha definito il suo metodo di lavoro “un’improvvisazione ragionata”.
Può essere un ossimoro nella superficialità, ma se si va all’essenza indica la profondità che l’essere umano ha e che non riguarda solo chi lavora nella ristorazione, ma ognuno di noi. L’improvvisazione preclude un ragionamento, anche se talvolta si pensa erroneamente che chi improvvisa non sia una persona preparata. A mio giudizio l’improvvisazione nasce da qualcosa che si è vissuto per molti anni e che a un certo punto della vita emerge. Uno dei piatti al quale sono più legato, e che è presente nel volume “Pensieri e vapori”, è l’animella bollita tagliata grossolanamente al coltello e accompagnata da un bocconcino di mozzarella di bufala alle quali aggiungo soltanto dell’acqua di governo. Io stravedo da sempre per le mozzarelle e da bambino mangiavo l’animella bollita che probabilmente è dentro di me sin da quando ero piccolo. Questo per sottolineare che sono passati 40 anni e quell’improvvisazione che sembra momentanea in realtà nasce da un iter più lungo. Il cuoco non è un artista, se non nell’atto in cui nasce l’idea, ma ha talento e creatività che però deve allenare.

Di quale ingrediente non può fare a meno?
L’uovo perché mi piace tantissimo: da quello all’occhio di bue a quello alla coque. Probabilmente per delle reminiscenze legate al fatto che lo mangiavo da piccolo e che lo sapevo fare anche quando non ero ancora un cuoco, anche se saperlo cucinare bene è un’altra cosa.

Come nasce una nuova proposta culinaria?
Dalla curiosità, dai viaggi, dagli incontri e dai dialoghi con le persone oltre che dall’osservazione. Uno chef non deve mai smettere di assaggiare e di osservare perché, ad esempio, se si va al mercato e non si guarda con attenzione non si vede se c’è un prodotto nuovo.

La curiosità, anche verso mondi diversi dal food, è una ricetta importante in cucina?
Assolutamente. Oggi siamo nell’esempio. Noi cuochi dobbiamo ricordarci della nostra disciplina, ma abbiamo voglia di misurarci con espressioni che sono collegate al nostro mondo come l’arte, il cinema, il design e la pittura. Parlare con persone che sono migliori di noi come spirito e che hanno talento nella loro professione ha un valore enorme. Se ci si confronta sempre e solo con chi appartiene al proprio mondo non si evolve.

Del Cambio: all’interno del ristorante c’è il Tavolo dello Chef, giudicato da molti ospiti un’esperienza emozionale.
Il Tavolo si trova di fronte alla cucina dove gli ospiti possono vedere tutto ciò che accade. È una sorta di omakase giapponese e mi viene lasciata la libertà di preparare quello che desidero. Il cliente può solo scegliere il vino. Chi è in sala è con altri clienti. Al Tavolo dello Chef, che ospita da una a quattro persone, il concetto è diverso. Il menù è dedicato e c’è un’interazione sia con me sia con i ragazzi che spiegano e porgono il piatto dalla cucina che è aperta e visibile grazie ad una finestra. La sala grande rappresenta il cinema, il Tavolo è il teatro. Quando il Tavolo è riservato si chiudono due porte e va in scena un altro copione della ristorazione.

Qual è il valore che non deve mai essere messo in discussione per chi lavora nel suo settore?
La sensibilità, che ormai è merce rara. Sarebbe importante che tutti noi, non solo gli chef, non la alienassimo. A mio giudizio sarebbe utile creare una cattedra di sensibilità in diverse facoltà universitarie.