Luigi Calabria: promuoviamo le banche italiane e creiamo nuovi leader di mercato come valore aggiunto


Luigi Calabria ha ricoperto ruoli fondamentali nel mondo economico e finanziario del nostro Paese, già Presidente di Poste Vita, Direttore finanziario in Leonardo e Finmeccanica, ed Amministratore Delegato in Mediocredito Centrale, oltre ad una solida e lunga esperienza negli Stati Uniti.

Una sensazione comune ai molti meno esperti, è che le banche italiane stiano seguendo quello che era stato l’invito di Mario Draghi ad aggregarsi per diventare più competitive sul mercato internazionale e soprattutto evitare di essere incorporate da banche straniere. Lei crede che le grandi banche del nostro Paese possano realmente competere su un mercato europeo o addirittura  statunitense o asiatico?
La Banca d’Italia ha individuato per il 2024 sei gruppi bancari italiani come istituzioni a rilevanza sistemica nazionale, in particolare Unicredit, Intesa San Paolo, Banco BPM, BPER Banca, Mediobanca, Iccrea e BNL. Tali istituti, come pure la gran parte degli istituti bancari italiani ed i gruppi esteri che operano in Italia, hanno consuntivato bilanci 2023 in utile ed in crescita. Nell’M&A oggi si rilevano singoli riposizionamenti, anche significativi, di questo o quell’istituto, ma concordo sull’opportunità per soggetti di mercato come i grandi gruppi bancari italiani di crescere anche per linee esterne, soprattutto nell’attuale congiuntura favorevole di mercato, al fine di rafforzare il posizionamento strategico e massimizzare la filiera produttiva.

Spero sinceramente di non dover rivivere situazioni di concentrazioni bancarie “forzate”, come ad esempio nella stagione 2016-2018, che coinvolsero la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, poi rilevate da Banca Intesa senza esborso finanziario iniziale. Un esborso di circa 4 miliardi di euro venne però effettuato da soggetti privati nelle due banche attraverso il fondo Atlante, si disse per evitare il c.d. “bail-in”, tuttavia l’investimento in detto fondo non ebbe nessun ritorno per i sottoscrittori. Infine, con riguardo alla competitività, la banca commerciale deve fare bene il suo mestiere nel suo mercato nazionale, come avviene in tutte le parti del mondo, poi quando la quota di mercato nazionale è alta e la banca è redditizia, in tal caso si pensa di acquisire altri business di banca commerciale in altri mercati. In questo caso l’Italia è un caso atipico di mercato aperto nell’Unione Europea, un po’ come il Regno Unito, dove soggetti esteri hanno potuto investire senza alcun problema, a differenza dei mercati più protettivi dei paesi continentali dell’UE.

Diverso è il discorso delle attività di CIB e di mercati dei capitali, che sono attività che possono essere centralizzate e svolte contemporaneamente su più mercati internazionali, nell’Unione Europea, nel Regno Unito, negli USA ed in Asia. In questo caso alcune banche italiane svolgono tali attività con profitto, ma non hanno quote significative del mercato globale, come pure ad esempio non le hanno le banche francesi, mentre tale mercato è caratterizzato soprattutto dagli istituti bancari statunitensi. Mi ha sempre fatto piacere promuovere le banche italiane invitandole alle operazioni internazionali dei mercati dei capitali di cui mi sono occupato, e penso che sia stato un sentimento ricambiato.

Il sistema produttivo mondiale ha subìto un cambiamento radicale per ragioni a tutti noi conosciute e, non ultima, un’inflazione che non ha consentito una ripresa efficace dell’economia circolare. Il nostro Paese si è difeso, ma lasciando dietro di sé molte piccole e medie imprese fallite ed altre che tuttora soffrono. Le nostre banche sono state spesso accusate di non avere saputo o voluto dare loro il giusto sostegno, al di là degli interventi promossi dallo Stato. È proprio così?
Non lo penso neanche un secondo. Il sistema bancario è l’altro soggetto che ha sofferto largamente dei cambiamenti negativi del sistema produttivo, insieme alle imprese fallite e alle imprese che tuttora soffrono, incluse le PMI e le SME. Gli NPL, gli UTP ed in generale il credito deteriorato di cui hanno sofferto ed ancora soffrono le banche dipende dalla fragilità endemica delle imprese italiane (soprattutto quelle che non sono riuscite a crescere per dimensione, tecnologia e internazionalizzazione), dalla inefficacia perdurante dei mercati finanziari al di fuori del credito bancario ai quali le PMI/SME di fatto non possono ricorrere, dal quadro regolatorio e normativo e penso anche dalla difficoltà complessiva delle banche a finanziare i soggetti che pur meritevoli sono in difficoltà, perché il quadro regolatorio quasi non consente più di farlo.

Sono temi complessi, però noto che, a livello di strumenti normativi, il sistema italiano dispone del miglior Fondo Centrale di Garanzia Europeo, che protegge i finanziamenti alle PMI/ SME italiane attraverso l’assicurazione del credito, e forse per l’importanza di tale strumento non esiste invece alcun strumento operativo diretto di supporto all’equity delle PMI/SME, e neanche indiretto attraverso la fiscalità, né un sistema di intermediari finanziari e di quadro normativo efficace che aiuti la capitalizzazione o la ricapitalizzazione delle PMI/SME italiane che sono cronicamente sottocapitalizzate, c’è da dirsi talvolta anche per ragioni addebitabili agli imprenditori. In questi giorni mi sto occupando della raccolta delle sottoscrizioni di un fondo FIA dedicato all’investimento nel capitale di PMI/SME di una particolare filiera industriale del nostro paese. La nostra proposta è una novità per gli investitori che non sono abituati ad investire nel capitale di PMI/SME, anche attraverso un fondo dedicato. Anche l’esperienza dei PIR si è interrotta dopo l’ultimo cambio di normativa.

Lei è fondatore e Amministratore Delegato di Aglaia Capital Partners, una società di consulenza che attraverso altre sue collegate, si occupa di transizione energetica, sviluppo tecnologico, consulenza finanziaria alle medie e grandi imprese così come di fornire supporto nella gestione ed ottimizzazione dei processi aziendali.
Sì, metto la mia esperienza e quella del team di Aglaia a servizio degli imprenditori, dei CEO e dei CFO, secondo le loro necessità specifiche di operazioni ordinarie e straordinarie. L’ambizione è di creare nuovi leader di mercato e di ripetere alcune esperienze molto gratificanti. Ogni periodo storico ha le sue opportunità, oggi come nel passato.

Oltre 180 Paesi hanno aderito agli accordi di Parigi del 2015, i quali si impegnano nel ridurre le emissioni di gas di almeno il 60% entro il 2030 rispetto ai valori registrati lo scorso 2019 2020, limitando quindi il surriscaldamento globale ad una soglia massima di 1,5, con l’ulteriore scopo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra ma senza incidere negativamente sulla nostra nutrizione. Un massivo investimento finanziario di ogni singola grande impresa non può che non essere previsto. È un progetto utopistico?
All’esame di Maturità Classica non mi diedero il voto più alto perché risposi che l’imperativo categorico di Kant era anche qualcosa di reale e non solo un’utopia. Quindi per evitare lo stesso errore dico che l’ambizione di riduzione del surriscaldamento globale attraverso minori emissioni di gas serra è un’utopia bell’e buona, soprattutto per l’effetto che la riduzione delle emissioni di gas serra europei avrebbe nel mondo, dove l’Europa produce una componente di gas serra marginale rispetto al totale. Questo non significa però che il mondo della produzione, della trasmissione e del consumo di energia non debbano attraversare tutti i cambiamenti che più o meno, in diversi momenti storici, hanno attraversato tutti i comparti industriali, anche con lo scopo di ridurre le emissioni di CO₂.

L’elettrificazione dei consumi termici è un dato di fatto che andrà avanti, non solo per il contributo della produzione da energie rinnovabili al totale dell’energia prodotta (nel 2023 il 44% in Italia, oltre il 50% in Spagna e Germania, il 27% in Francia – escluso il nucleare che lì è preponderante, etc.), ma anche per le nuove soluzioni tecnologiche che vengono offerte dall’industria ai diversi consumatori ed operatori, ad es. nel campo della riqualificazione energetica degli edifici, nell’economia circolare.

L’Italia ha il tasso demografico più basso in Europa. Molti anziani, pochi giovani quindi un ridottissimo cambio generazionale in un mercato del lavoro fermo. I più bravi lasciano il nostro Paese per andare soprattutto in Germania, Spagna, Francia e Inghilterra. L’Istat ci racconta che dal 2011 ad oggi sono oltre un milione i giovani sotto i 30 anni che hanno emigrato. Cosa non sta funzionando?
Dove vanno i più bravi ci interessa moltissimo come italiani, e naturalmente ci preoccupa, perché un milione di giovani sotto i 30 anni che lavorano all’estero sono molti. Sono ragazzi e ragazze molto bravi, hanno minori certezze che nel passato, ampliano la loro formazione personale e professionale e si spendono nel mercato del lavoro globale. In una famiglia che conosco un fratello è rimasto all’estero, l’altro è rientrato in Italia. Per chi vorrà rientrare, è certo che ci sarà un mercato del lavoro importante in Italia, ed è molto probabile che tale mercato migliorerà, colmando, almeno parzialmente, i gap competitivi con alcuni mercati esteri.

Più in generale sulla demografia, sono favorevole a politiche più efficaci d’incentivazione della natalità in Italia, cercando di adeguarci alla Francia, che in questo settore è tra i leader europei, quantomeno nel “quantum” diretto o indiretto di supporto. Sono infine favorevole alla convivenza e al rispetto reciproco di culture diverse, inclusa la cultura della coppia genitoriale, anche perché senza il rispetto e l’accettazione piena delle diversità del prossimo non può esserci una società inclusiva.

Grazie.