In Islanda, anche la riduzione dell’orario settimanale di lavoro è tra le eredità della crisi pandemica
Tra gli effetti socio-economici della pandemia, sta avendo un grande rilievo la discussione se certe conseguenze sull’organizzazione del lavoro siano da ritenersi più o meno provvisorie o se, al contrario, assumano caratteristiche permanenti. In questa discussione l’attenzione si è appuntata essenzialmente sul ricorso al lavoro a distanza, sul fatto che questo diventi o meno parte integrante di un nuovo modo di lavorare.
Al di là della diversità delle opinioni, sembra abbastanza condivisa l’idea che sia sostanzialmente difficile – e forse nemmeno così possibile – il ritorno al “business as usual”, cioè al come eravamo. La motivazione non è più – ovviamente – quella del distanziamento e delle precauzioni sanitarie, ma piuttosto quella di un nuovo bilanciamento tra attività lavorativa e cura dei propri interessi, familiari o sociali che siano, nel quadro di un’auspicata nuova organizzazione del lavoro che metta al centro la persona e non solo il lavoro. Nel dibattito, tutto sommato convergente verso questa nuova possibilità, è stata quasi completamente ignorata la possibilità di ridurre l’orario di lavoro.
Una soluzione questa che è stata invece sperimentata in Islanda ancor prima dello scoppio della crisi sanitaria dovuta al Covid-19. Ne parla con ampiezza di casi e dati statistici, il rapporto “Going public: Iceland’s journey to a shorter working week”, prodotto dall’Associazione per la sostenibilità e la democrazia (Alda) islandese e dal think tank britannico Autonomy.
Questi i fatti
Per quattro anni, tra il 2015 e il 2019, circa 2.500 islandesi (poco oltre l’1% della forza lavoro) sono stati coinvolti in due importanti esperimenti per testare gli effetti di una settimana lavorativa più corta, da 40 a 35/36 ore a settimana. Secondo il Rapporto, “ridurre una settimana lavorativa di 40 ore a 35 o 36 ore non ha comportato alcun calo della produttività o della fornitura di servizi”, mentre il benessere dei lavoratori è migliorato sostanzialmente in una serie di parametri, tra cui lo stress percepito e il cosiddetto “burnout”, cioè quella condizione di stress cronico, associato al contesto lavorativo, che mette ko il dipendente.
“Molti lavoratori hanno affermato che dopo aver iniziato a lavorare meno ore, si sono sentiti più attivi e meno stressati, aspetto che li ha portati a infondere più energia in altre attività, come l’esercizio fisico, gli amici, gli hobby”, riportano i ricercatori.
Questi fattori hanno influito positivamente sull’efficienza lavorativa. Nel quadriennio coperto dalle sperimentazioni è stata coinvolta un’ampia gamma di luoghi di lavoro, dagli ospedali agli uffici e i risultati hanno mostrato che la produttività ed i livelli di servizio sono migliorati o rimasti uguali nella stragrande maggioranza degli ambienti di lavoro e non c’è stato un aumento significativo degli straordinari, almeno per la maggior parte del personale. Riunioni più brevi, cambi di turno e l’eliminazione di attività superflue, hanno per messo ai lavoratori e alle lavoratrici di passare a nuovi ritmi.
Lavorare quattro o cinque ore in meno alla settimana ha effettivamente costretto le persone a essere creative nella divisione dei compiti e, sebbene alcuni partecipanti alle prove abbiano affermato di aver inizialmente faticato a adattarsi, la maggior parte delle persone coinvolte si è presto abituata ad un nuovo modo di lavorare. Da quando sono stati condotti i test ad oggi, grazie a specifici accordi stipulati con i sindacati tra il 2019 ed il 2021, ben l’86% dell’intera forza lavoro in Islanda è passata ad una settimana lavorativa più corta o ha conseguito il diritto a farlo.
“Con il passare del tempo, è diventato anche sempre più chiaro che pochi desiderano tornare alle condizioni di lavoro pre-pandemia” – conclude il Rapporto – “Il desiderio di una settimana lavorativa ridotta è destinato a diventare la nuova normalità”. Un dato, quello della nuova sensibilità verso tempi di lavoro più umani e rispettosi della persona, che sembra coinvolgere anche coloro che hanno, per amore o per forza, sperimentato il cosiddetto smart-working.
Il Rapporto riporta quindi l’auspicio che questa esperienza di successo, che migliora l’equilibrio tra occupazione e vita privata, possa aprire la strada ad altre simili esperienze in Europa. Un auspicio a cui umilmente si unisce anche l’autore di questo pezzo, senza dimenticare di sottolineare però che i dipendenti interessati dalla riduzione di orario, in Islanda, hanno mantenuto la stessa busta paga, anche ad orario ridotto…
Perché come si sa… il Diavolo si nasconde nei dettagli…