Martin Scorsese: il regista che ammira gli altri registi


Considerato un mito del cinema internazionale, Martin Scorsese è un appassionato di film. Profondo conoscitore del genere, dalle pellicole più antiche a quelle contemporanee, nutre una grande stima per i colleghi di ieri e di oggi. Martin Scorsese è un vero uomo di cinema, un cinefilo che ammira le opere di Fellini, Kubrick, Visconti, Ford, Rossellini, Welles, Rosi, Kurosawa, Bresson, Renoir, Hitchcock. Lo ha sottolineato lui stesso durante l’incontro che si è tenuto al Museo Nazionale del Cinema di Torino durante il quale il maestro della New Hollywood ha ricevuto il prestigioso Premio Stella della Mole.

Acclamato dal pubblico e dai colleghi, tra i quali il Premio Oscar italiano Giuseppe Tornatore che era presente in città per il grande evento, al Museo Nazionale del Cinema Scorsese ha anche tenuto una masterclass dal grande valore artistico e umano. Di lui o, meglio, dei suoi film, conosciamo molto. Siamo certi del sodalizio con Robert De Niro e Leonardo Di Caprio, protagonisti di molte delle sue pellicole di successo, sappiamo che dal 1981 al 2024 ha ricevuto quasi venti candidature agli Oscar e che nel 2007 è stato premiato come miglior regista per “The Departed – Il bene e il male”. Siamo anche informati su quali sono i suoi film preferiti grazie al sondaggio svolto nel 2022 dalla rivista Sight & Sound. Scorsese, tra i tanti, ha citato “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, “8½” di Federico Fellini, “Quarto potere” di Orson Welles e “Il Gattopardo” di Luchino Visconti. Abbiamo però un’altra certezza: quella che è indubbiamente uno dei registi più amati ad ogni latitudine dagli spettatori di tutte le età, è a sua volta un grande appassionato di film e soprattutto di quelli di un tempo. Il suo interesse negli anni si è trasformato in un impegno costante che ha come finalità la protezione del patrimonio culturale antico, come si evince dal documentario “The Living Record of a Memory” in cui Scorsese ripercorre la storia della conservazione cinematografica. Un impegno, quello per la salvaguardia delle pellicole di un tempo, che è anche una dichiarazione d’amore verso il cinema.

Quando ha capito che sarebbe diventato regista?
Ero un bambino e mio nonno mi raccontava le storie di una Sicilia che non avevo mai visto. Ogni sua parola dentro di me si trasformava in un’immagine, nel frammento di un film che avrei voluto girare.

In quale contesto è nato il suo amore per la settima arte?
Sono cresciuto in un’epoca di grande cambiamento nel mondo del cinema. Vivevo a New York, nell’East Side, e vedevo che dall’altra parte della città c’era grande fermento. Stava emergendo un nuovo modo di interpretare la cinematografia.
Era la metà degli anni Sessanta e non solo in America, ma anche in Europa c’erano importanti novità: era il periodo della new wave francese e italiana, c’erano Truffaut e Fellini. Ovunque nasceva un diverso linguaggio cinematografico.

Un film che ricorda con particolare emozione?
“Taxi Driver”. Robert De Niro, Paul Schrader ed io eravamo come un’unica mente e anche se tutti erano contro di noi, volevamo assolutamente realizzare quel film. La pellicola racconta di persone alienate e io, in quel momento della mia vita, mi sentivo esattamente così. Ovviamente quello era il mio stato d’animo e non quello degli altri, ma alla fine abbiamo capito che tutti, durante la realizzazione, avevamo provato le stesse emozioni. È stato un lavoro impegnativo che nessuno di noi è mai riuscito a descrivere con le parole.

 

Tra le tante, un’altra pellicola che è entrata nella storia è “Toro Scatenato”. Cosa ricorda del periodo in cui lo ha girato?
Sono sincero: è stato un film importante, ma solo 25 anni dopo averlo realizzato ho capito esattamente cosa rappresentasse. Lo sapevo quando l’avevo girato, ma non potevo verbalizzarlo.

Da “Quei bravi ragazzi” a “Gangs of New York”, passando per “Casinò” e “The Irishman”, uno dei leit motiv della sua filmografia è la violenza. Perché ha scelto di indagare questo tema?
Perché non possiamo ignorare che la violenza faccia parte della nostra vita. Sono cresciuto a New York e in questa città, purtroppo, assistevo spesso a situazioni estreme. Il cinema mi ha offerto l’opportunità di esplorare anche questa zona d’ombra, di osservarla con attenzione per capirla meglio.

Nel suo ultimo film, “Killers of the Flower Moon”, narra la vicenda dei nativi Osage dell’Oklahoma. Un argomento complesso da raccontare?
Per me era necessario ricordare la storia di questo popolo che fu vittima di un genocidio organizzato per appropriarsi delle ricchezze petrolifere. È stato impegnativo girare questo film sia perché volevo garantire l’accuratezza dei fatti sia perché sapevo che avrei messo in evidenza la brutalità del capitalismo americano. Credo però che sia importante raccontare questa vicenda perché certe dinamiche del passato possono purtroppo ripetersi anche oggi.

The Film Foundation e World Cinema Project sono la testimonianza del suo amore per il cinema di un tempo. Perché è importante preservare le pellicole più antiche?
Per me conservare un film è come custodire un ricordo. È un modo per contrastare la velocità con cui il tempo cerca di farci dimenticare le storie e le emozioni. Ricordo che nella metà degli anni ’80, insieme a Bob Rosen della UCLA, andavamo a bussare alle porte degli studios per ricordare che c’erano delle pellicole dimenticate, dei veri tesori che dovevano essere preservati e non abbandonati negli archivi. Ai miei tempi non c’erano le videocassette, i DVD o le piattaforme digitali: l’unico modo per rivedere un film era trovare una copia d’archivio che purtroppo, spesso, era in condizioni disastrose. Le pellicole erano fragili e se non venivano trattate con cura, si deterioravano. È da questa consapevolezza che sono nate nel 1990 The Film Foundation e nel 2007 il World Cinema Project.

Dal cinema a TikTok e Instagram. Avrebbe mai creduto di diventare un content creator da milioni di follower? (Ride).
Colpa di mia figlia che mi ha detto: papà, devi provare.

Di recente ha girato un documentario in Sicilia. È legato all’Italia?
Il documentario ha per tema il mondo antico per il quale ho sempre nutrito un grande interesse. In particolare, mi appassiona la storia siciliana. Il Teatro dei Pupi, così come le avventure di Orlando e Angelica dell’Ariosto, sono fondamentali per capire chi siamo e da dove veniamo. Amo il vostro paese, la mia famiglia era della provincia di Palermo e posso dire che, in un certo senso, la mia formazione è italiana. Fino all’età di 10 anni ho vissuto a Little Italy e in quel quartiere di New York abitavano moltissimi napoletani, campani e siciliani. Quei ricordi mi hanno influenzato come artista per cui per me, tornare in Italia, è sempre una sorta di ritorno alle origini.

Possiamo sperare di vedere ancora molti film firmati da lei?
Sicuramente. Posso assicurare che, nonostante l’età, non ho alcuna intenzione di ritirarmi. Il cinema fa parte di me e non potrei mai staccarmene.

Può svelarci una prossima trama?
Volevo girare un film su Frank Sinatra, ma per ora è in stand-by. Sto lavorando a un progetto su Gesù, ma mi sto dedicando anche a tante altre cose. Negli ultimi tempi, ad esempio, mi sto interessando di scavi archeologici e ho in programma di visitare Polizzi Generosa, il paese di mio nonno Francesco Scozzese. Pensi che, quando è arrivato in America, hanno sbagliato a scrivere il cognome e così siamo diventati Scorsese. Sicuramente vedere quei luoghi che fanno parte delle mie origini sarà un momento speciale per me e per la mia famiglia. E poi chissà, magari nascerà una nuova storia per un film. D’altronde l’ispirazione arriva sempre nei modi più strani.


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