Dalla via della seta a quella del silicio


Dove si produce ciò che fa girare il mondo della tecnologia avanzata

Se la Via della Seta, almeno nelle intenzioni della Cina, dovrebbe attraversare l’intera Asia ed arrivare fino in Europa, la Via del Silicio si snoda invece molto più modestamente sulla costa nord-est dell’isola di Taiwan. È qui infatti che tra  distese fangose e frutteti odorosi, si annida una delle più importanti aziende a livello mondiale, di cui però – probabilmente – non avete mai sentito parlare. È la sede della Taiwan Semiconductor Manufacturing, abbreviata TSMC, il più grande produttore mondiale di chip per semiconduttori appunto, o circuiti integrati che dir si voglia, o semplicemente chip, quelli – per intenderci – che troviamo nei nostri smart-phone, laptop, orologi, ma anche automobili e frigoriferi di ultima generazione. Qui infatti – e più precisamente nella tranquilla e un po’ sonnolenta contea di Hsinchu – vengono lavorati e inscatolati in pratici contenitori da 9 chilogrammi l’uno, i famosi “wafer” di silicio – 25 per scatola – che passano attraverso centinaia di stazioni di lavorazione, dove vengono estratti uno ad uno, proprio come in un jukebox, e completati. È solo dopo un viaggio all’interno degli anonimi blocchi di cemento bianco sporco che costituiscono la fabbrica, dopo controlli che durano settimane, che vengono rifiniti in specifici chip da spedire in tutto il pianeta. L’azienda taiwanese, con i suoi oltre 500 miliardi di dollari di fatturato, controlla oltre il cinquanta per cento del mercato mondiale, con un’ulteriore preminenza sui processori più avanzati, dove la quota di mercato viene stimata a circa il 90%. Per questo la TSMC è una realtà critica nel panorama mondiale: perché controlla di fatto la più complicata parte dell’ecosistema dei semiconduttori ed esercita un monopolio quasi assoluto sull’intera filiera delle nuove tecnologie. Un sistema, quello dei semiconduttori, cresciuto esponenzialmente negli ultimi 50 anni. Basti pensare che nel 1969 il modulo lunare Apollo portò sulla luna diverse decine di migliaia di transistor che avevano un peso pari a 32 chilogrammi; oggi un MacBook della Apple ne porta in corpo 16 milioni con un peso che non arriva ad un chilo e mezzo. Una crescita della capacità di miniaturizzare sempre più richiesta man mano che si sono estese le applicazioni informatiche e destinata a crescere esponenzialmente con la diffusione dell’internet delle cose e del 5G, che richiedono e richiederanno capacità e velocità di elaborazione sempre maggiori. Fabbricare i microchip sta diventando un lavoro così incredibilmente complesso e specializzato, che diversificare la localizzazione delle fabbriche è meno facile di quanto si pensi, soprattutto se si debbono mantenere standard di qualità estremamente alti. Lo si è visto con chiarezza durante i lunghi mesi della crisi del Covid-19, quando i costruttori di auto americani, giapponesi ed europei, furono forzati a ridurre la produzione di auto e mezzi pesanti, quando non ad interromperla del tutto. Allora i riflettori si accesero sulla prima potenza al mondo, ancora in grado di eccellere nell’invenzione e nel design delle nuove tecnologie, ma senza una vera industria manifatturiera made in USA. Infatti, l’unica azienda in grado di produrre chip avanzati come quelli di TSMC è la sudcoreana Samsung Electronics. La scarsità dei chip dovuta dalla pandemia ha trasformato così una società tutto sommato piuttosto anonima al di fuori degli addetti ai lavori, in un interlocutore industriale globale per il futuro tecnologico dell’intero pianeta, rendendo evidente a tutti il fatto che la forma che avrà il mondo alla fine di questa decade, dipenderà anche dal ruolo che si giocherà in una parte remota ed infinitesimale del mondo. Ma l’indiscussa capacità di TSMC di governare il mercato ha finito per creare una vera e propria emergenza geopolitica, soprattutto a fronte delle pretese sempre più pressanti ed aggressive della Cina, che ha provocatoriamente e ripetutamente minacciato di invadere l’isola anche se – paradossalmente – proprio l’industria dei chip fornisce a Taiwan il miglior scudo rispetto alle mire cinesi. Non a caso il Presidente Biden ha definito i microchip un “prodotto critico”, la cui interruzione della catena di produzione potrebbe mettere a rischio il livello di vita degli americani; gli hanno fatto eco i governi del Giappone e della Corea del Sud, che hanno addirittura comparato l’importanza di questo prodotto ad un alimento base ed iconico per le rispettive economie, come il riso.


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