Come la pandemia ha dato vita ad un e-commerce integrato con i negozi fisici di prossimità.
Come era già avvenuto in Estremo Oriente circa vent’anni fa durante l’epidemia di SARS, quando il rischio contagio aveva dato un impulso decisivo alla trasformazione del retail tradizionale cinese, così è avvenuto oggi con il Covid-19 un po’ in tutto il mondo. Allora si erano sviluppati fenomeni come la Jingdong Century Trading, una sconosciuta catena di negozi fisici evolutasi nella potentissima JD.com, una delle più grandi piattaforme di e-commerce del mondo, quotata anche al Nasdaq di Wall Street. Aveva anche preso vita Taobab, lanciata nel 2003 da Alibaba per aiutare piccoli negozi e singoli imprenditori a vendere ai consumatori direttamente on-line. Il copione, come dicevamo, si è ripetuto nel 2020 quando milioni di consumatori, come spiega una recente ricerca Ocse, hanno saltato di slancio gli ostacoli tecnologici e culturali vincendo anche una certa diffidenza verso gli strumenti di pagamento elettronico. Un’altra indagine recente, questa volta della società di consulenza McKinsey, ha rilevato come a livello globale metà del recente boom dell’e-commerce derivi da utenti, in buona parte non giovani, che mai in precedenza avevano acquistato on-line. Anche sul fronte delle aziende si sta definitivamente affermando un modello complementare ed integrato di esperienza di acquisto, in parte fisica e in parte digitale, con tutto ciò che questa scelta organizzativa comporta sia in fatto di allestimento dei negozi reali che di piattaforme internet dedicate, ma anche di logistica e di cambio del modello di business. Fino a pochi mesi fa sembrava che i grandi siti fossero destinati ad aumentare la propria quota di mercato in maniera incontrollata, lasciando poco spazio a tutti gli altri. Ma i ricercatori dell’Ocse ci raccontano – dati alla mano – tutta un’altra storia: durante la pandemia Amazon è cresciuta meno dei suoi concorrenti. Il colosso di Seattle ha messo a segno nel primo trimestre del 2020 un incremento delle vendite del 26% rispetto all’anno precedente, ma allo stesso tempo ha perso terreno rispetto ai concorrenti più tradizionali. Il dato risulta evidente negli Stati Uniti, dove la quota di mercato dell’azienda di Jeff Bezos è scesa dal 42,1% di gennaio al 38,5% del mese di giugno, mentre sono salite quelle di Walmart (dal 4,2% al 5%) e di Target (dal 2,2% al 3,5%), ovvero grandi catene retail dotate di ipermercati e magazzini che facilitano l’esperienza fisica di prova del prodotto e di consegna o ritiro in tempi comunque molto brevi. Anche in Italia le misure di distanziamento e la chiusura forzata delle attività commerciali fisiche hanno accelerato la transizione verso i canali di vendita on-line: secondo un’indagine di Netcomm, il principale consorzio italiano di e-commerce, dall’inizio della pandemia il 75% delle persone che ha comprato on-line non lo aveva mai fatto prima, mentre quasi l’80% delle aziende on-line intervistate ha dichiarato di aver acquisito nuovi clienti fin dalle prime settimane di emergenza. Complessivamente si stima che nei primi mesi del 2020 si siano registrati 2 milioni di nuovi consumatori digitali, che hanno fatto diventare lo shopping on-line un’abitudine piuttosto consolidata per quasi 30 milioni di italiani: una crescita mai vista prima. Secondo l’Osservatorio e-commerce B2c della School of Management del Politecnico di Milano, quest’anno il giro di affari dell’e-commerce di prodotto è destinato ad una crescita record di 5,5 miliardi di euro rispetto al 2019, e supererà i 23 miliardi, con l’alimentare (Food & Grocery per essere più esatti) che da solo ha generato 2,7 miliardi di acquisti (70% in più del 2019). Ma la pandemia ha anche accelerato la digitalizzazione di piccole aziende e negozi che non avevano mai venduto sul web, facendo crescere un po’ dappertutto quello che è stato battezzato l’e-commerce di prossimità. Costretti dal lockdown ad abbassare le saracinesche, molti piccoli negozianti sono ricorsi a piccole piattaforme locali di vendita digitale per poter consegnare a domicilio la propria merce. Nel nostro Paese i nuovi e-commerce di prossimità stanno sorgendo come funghi, mettendo a segno crescite verticali del giro di affari. Il fenomeno è stato piuttosto evidente nelle grandi città, ma anche in alcuni piccoli centri, contribuendo non poco al boom senza precedenti degli acquisti on-line. Ci sono, per citarne alcuni venuti recentemente alla ribalta del grande pubblico, “Io resto a casa delivery”, creato a Milano da un’agenzia di comunicazione digitale e da una società specializzata nelle convenzioni aziendali, ma anche “Daje Shop”, partito a Roma su iniziativa di tre giovani nel quartiere di Monteverde. Ma anche “Rialzati.it” a Udine e persino “Cecina Delivery”, che opera nel piccolo comune toscano. Si tratta sostanzialmente di servizi di consegna a domicilio che permettono ai clienti – anche a quelli meno giovani e più in difficoltà con la tecnologia – di continuare a rifornirsi nel negozio di fiducia senza entrarci fisicamente, con consegne che avvengono in giornata. Oppure di ricorrere al sistema “Click&Collect”, ovvero acquistare on-line via sito internet, app o social, facendo seguire il ritiro in negozio, a orari prestabiliti, per evitare le lunghe file all’ingresso, sfruttando proprio quello che Amazon non potrà mai avere: il rapporto diretto di fiducia “fisico” tra negoziante e cliente. Non è quindi un caso che la stessa Shopfy, una delle più famose piattaforme mondiali di e-commerce, si sia adeguata alle nuove tendenze allargando il suo modello di business ai negozi fisici di prossimità. Tutto sta cambiando molto in fretta. E non è detto che nello shopping, come anche nella scuola o nel lavoro, anche a pandemia conclusa, tutto torni esattamente come prima.