Dopo il ritorno sul palco di Sanremo con “Ti muovi”, il cantautore lancia il suo nuovo album, che è un omaggio all’intensità del live, e si prepara ad esibirsi per la prima volta in tour nei più prestigiosi teatri italiani.
“Che vita meravigliosa,… seducente e miracolosa… vita che mi stringe in mezzo al mare…”. Sono solo alcuni versi della poetica di Diodato. Cantautore intenso e ricercato tra i più apprezzati del pop italiano, che dal 2020 con la vittoria sanremese di “Fai Rumore”, è entrato a pieno titolo tra i big nella storia della musica italiana ed anche nel cuore degli italiani. Chi non ha negli occhi il suo cantare solitario in una Arena di Verona deserta? Da quell’anno e da quel momento da brividi si è aggiudicato un premio dietro l’altro, anche nel cinema prima con “Che vita meravigliosa”,
celebre ritornello dei pomeriggi televisivi di Rai Uno, e poi con “La mia terra”, colonna sonora del film “Palazzina Laf”, diretto da Michele Riondino e vincitrice del David di Donatello come migliore canzone originale. Sono stati anni di successi musicali accompagnati da un tour in Italia e da alcuni live internazionali in Europa, America e Cina.
Ora Diodato presenta “Ho acceso un fuoco”, un nuovo progetto discografico in cui celebra la dimensione live, un album arrangiato dallo stesso musicista che contiene pezzi già editi tra cui “Ti muovi”, brano con cui il cantautore ha partecipato all’ultimo Festival di Sanremo, fino a canzoni più recenti come “Ci vorrebbe un miracolo” o la cover di “Amore che vieni, amore che vai” di Fabrizio De André che il cantautore ha interpretato con Jack Savoretti durante
la serata sanremese dei duetti. Il disco, registrato in presa diretta presso lo storico studio Officine Meccaniche di Milano, trasmette il calore del live e cristallizza in sé tutte le emozioni e l’energia raccolte in centinaia di concerti in giro per il mondo. L’incontro dal vivo con il pubblico rappresenta per Diodato un atto di liberazione, di sperimentazione musicale e umana.
Questo disco nasce al contrario rispetto a quanto accade solitamente: dal live allo studio.
Ho voluto fare un’esperienza inversa riportando in studio di registrazione ciò che ho raccolto con i miei compagni di viaggio in questi anni di concerti. È stata una sfida che ho lanciato anche a me stesso: provare a perdere il controllo, ad abbandonarmi il più possibile al flusso emotivo proprio come faccio nei live, ma questa volta all’interno di uno studio di registrazione. Ho accettato l’imprevedibile, l’imperfezione, suonando la chitarra mentre cantavo, con dieci musicisti e strumenti che suonavano insieme e vibravano nell’aria e nel corpo. Provare a cogliere un momento unico, irripetibile,
il movimento di un corpo vivo fino a sentire il suono e il calore del suo cuore infuocato.
Come nasce Diodato musicista? Facciamo un salto nel passato dei tuoi inizi.
Scrivevo e cantavo rock melodico in inglese ma la lingua non era il mio forte e questo mi fu evidente quando incontrai una ragazza che, nel complimentarsi per la mia musica, mi chiese in che lingua stessi cantando. Lì capii che dovevo tornare all’italiano. Il mio faro da qual momento in avanti divenne De André: la sua musica mi prese per mano, con tutta la sua immensa produzione. Grazie a lui ho capito che per cantare tutti noi dobbiamo tornare alle nostre origini.
Quanto è stato importante l’incontro con la musica?
Non molto tempo fa è stato postato un mio video di vent’anni fa in cui suonavo in una scuola. Intorno a me c’erano persone che mi guardavano con apprezzamento, ma io non avevo quel ricordo. Ai tempi della scuola mi sentivo un invisibile, non ero molto notato. Ora con la musica tutto è cambiato. E la cosa che mi ha colpito di più è stato capire che con la musica potevo incontrare gli altri. Quando parlo con le persone delle motivazioni che mi spingono a fare musica viene fuori l’umanità che è alla base di tutto. Negli anni ho capito che le canzoni sono un luogo in cui bisogna essere in tanti. La musica è sempre stata un’indagine per me, un modo di scoprirmi, per capire anche tutto ciò che non andava e come provare a migliorarmi. La musica mi aiuta a provare a vivere una vita migliore.
Forte, come dicevi, è anche il tuo legame con la terra d’origine. Penso al brano “La mia terra”.
Ci sono indizi, riferimenti alla mia terra in molte mie canzoni, senza dichiararlo apertamente. Da bambino ho viaggiato tantissimo e per anni mi sono sentito spesso un po’ nomade. A un certo punto ho scelto Taranto come la mia terra, avendo passato lì gli anni della scuola, dalla fine delle medie alle superiori, anni che ti formano. E poi lì stavano succedendo cambiamenti importanti ed io volevo essere parte di quella rivoluzione e dare una mano con quel poco che potevo fare. Così, quando ho saputo del film di Michele Riondino, mi è sembrato naturale propormi per fare la colonna sonora.
Poi ci sarà tanto teatro.
Questo è il mio primo vero tour teatrale ed è una bella sfida perché il teatro ti mette davanti al sacro silenzio, al dovere di dover creare un’esibizione artisticamente valida. Spero di riuscire a fare davvero qualcosa di speciale.
“Ti muovi” lo hai più volte definito come un brano che ti rappresenta.
Esattamente. Parte da qualcosa di molto intimo, da uno squilibrio emozionale, poi cresce e parla di una liberazione.
Per fare un passo in avanti si deve perdere in qualche modo l’equilibrio. Inizialmente ho scritto gli archi perché sentivo il desiderio di raccontare l’abbandono totale per poi condividere l’emozione del ritrovarsi. Questa canzone è, secondo me, un invito ad incontrarsi.
Cosa ne pensi dei messaggi di artisti che dal palco manifestano la propria contrarietà alla guerra? Ci sono stati a Sanremo ed anche al Primo Maggio.
Quando si parla di desiderio di una maggiore umanità non esistono partiti politici, schieramenti o confini da tenere distinti. Un messaggio di quel tipo non è politico ma solo molto umano. Noi artisti siamo spinti a mostrare la nostra umanità e non dobbiamo sentirci estranei al mondo che sembra tendere all’abituarsi di fronte a qualunque cosa.
Nessuno di noi dovrebbe mai abituarsi alla guerra. E penso anche che il silenzio di chi non si oppone possa essere considerato colpevole.